Docente di European Economics alla Luiss, Veronica De Romanis è una economista e saggista affermata che, negli anni, ha sostenuto l’austerità “buona”. Quella che, nelle parole di Mario Draghi, da presidente della Bce, “prevede meno tasse e una spesa concentrata su investimenti e infrastrutture”. Oggi Draghi, da presidente del Consiglio, è diventato il protagonista di un poderoso piano di spesa, sostenuto dall’Unione europea, per la ripresa e la resilienza dell’Italia dopo la crisi sanitaria ed economica.

Professoressa De Romanis, che valutazione dà del Pnrr del governo Draghi?
Rispetto alla versione predisposta dal Conte 2, il Pnrr di Draghi è profondamente cambiato. Ci sono i dettagli sugli investimenti: oltre 200 miliardi, più altri 30 finanziati dal bilancio italiano ma sottoposti alle stesse procedure di quelli del Pnrr. Poi c’è la parte delle riforme (la più importante): le riforme orizzontali per migliorare l’ambiente economico (PA e giustizia), quelle abilitanti per attuare il piano (concorrenza e semplificazioni), quelle di contesto (fisco e ammortizzatori sociali). Per ognuna il piano indica gli impatti (quello maggiore è quello della PA, pari a circa 2,5 punti percentuali in più di Pil nel lungo periodo) e i tempi di attuazione, piuttosto stretti.

La vera sfida adesso sarà l’attuazione…
Sì, i soldi vanno impegnati entro il 2023 e spesi entro il 2026. L’Ue effettuerà un monitoraggio semestrale. L’Italia dovrà dimostrarsi capace di fare ciò che non ha fatto in passato. Stavolta non può fallire. La pandemia ha mostrato il costo che si paga a non avere una macchina dello Stato che funziona. Senza le riforme, del resto, i fondi europei rischiano di non avere gli effetti sperati. L’impatto previsto degli investimenti sull’economia nel 2026 è pari a 3,6 punti percentuali di Pil. Con le riforme, tuttavia, questo impatto sarebbe maggiore di 3,3 punti.

Quali sono i principali problemi dell’economia italiana che potremo risolvere con il piano?
I problemi dell’economia italiana degli ultimi 20 anni sono ben descritti nell’introduzione del Pnrr firmata da Mario Draghi: crescita zero, produttività stagnante, debito in rapporto al Pil tra i più elevati e in crescita, disoccupazione soprattutto per i giovani e le donne. L’Italia ha dovuto affrontare la pandemia con tutte queste fragilità.

Che cosa deve accadere perché il disegno di Draghi si realizzi?
La maggior parte delle forze politiche che doveva risolvere le fragilità elencate oggi siede al tavolo del governo e ha approvato il piano. L’auspicio è quello di un cambio di metodo. Ci vuole visione lunga, coraggio politico per assumersi il costo delle riforme, stabilità e coesione.

Il Ngeu – e, di conseguenza, il Pnrr di Draghi – appare più un impulso all’economia che una iniziativa di inclusione sociale: è d’accordo?
La quinta delle sei missioni del Pnrr – circa 19 miliardi – è dedicata proprio alla inclusione e alla coesione sociale. L’obiettivo è ridurre le disparità di genere, sociali e territoriali. Gli interventi previsti sono molteplici, volti ad aumentare l’occupazione femminile, giovanile e, in particolare, dei giovani al Sud. La situazione era drammatica anche prima, ma la crisi l’ha peggiorata. I dati Istat lo dimostrano: i giovani e le donne pagano il prezzo il più elevato in termini di perdita di occupazione.

Che cosa propone il piano in proposito?
Grazie agli interventi previsti sui centri per l’impiego, l’imprenditoria femminile, le politiche attive del lavoro, il governo stima che entro il 2024-2026 l’occupazione giovanile dovrebbe aumentare di 3,3 punti percentuali (quella dei giovani al Sud di 4,9) e quella femminile di 3,7. Per quanto riguarda le donne, però, il governo poteva e doveva essere più ambizioso.

Ci spieghi meglio…
L’Italia è penultima in Europa per occupazione femminile e ultima per quanto riguarda le giovani donne (dietro anche alla Grecia). Per esempio, gli investimenti per i nuovi asili nido (fondamentali per fornire un aiuto concreto alle donne che lavorano) – inclusi nella missione 4 “istruzione e ricerca” – ammontano a 4,7 miliardi, ma contengono anche i fondi per le scuole dell’infanzia e i servizi di cura per la prima infanzia. Nel piano c’è una certa ambiguità perché non viene specificato il numero di asili nido che verranno creati, ma solo un numero totale pari a 228mila che include nuovi nidi e nuovi posti per la scuola per l’infanzia. L’obiettivo del governo è quello di raggiungere in termini di posti per bimbi da zero a tre anni il 33 per cento (in linea con la media europea) rispetto al 25 per cento attuale. Sarebbe un passo in avanti, ma insufficiente. Il piano Colao aveva posto come obiettivo il 60 per cento. Peraltro, le infrastrutture come i nidi non solo consentono alle donne di lavorare, ma riducono le disuguaglianze tra bimbi (e quindi la povertà) e creano posti di lavoro occupati prevalentemente da donne.

Insieme con la transizione verde, la digitalizzazione è una delle due principali missioni del Pnrr (43,6 miliardi di cui 10 alla P.A. e 27,5 per la competitività delle imprese). Come può influire sulla ripresa?
Il Pnrr destina oltre il 40 per cento del totale degli investimenti. Il paese deve recupere un gap sotto questo aspetto. Siamo al 25esimo posto in Europa come livello di digitalizzazione: bassa diffusione delle competenze digitali, e basso livello di investimenti in digitale e innovazione – soprattutto nelle piccole e medie imprese. Un ostacolo alla crescita della produttività.

Uno degli obiettivi del piano è quello di trasformare la pubblica amministrazione attraverso nuove infrastrutture digitali e, soprattutto, l’acquisizione di nuove competenze da parte dei dipendenti pubblici.
Formazione e investimenti in capitale umano sono le priorità. Questo approccio, a mio avviso, è la vera novità dopo anni di riforme in cui la priorità era combattere chi non voleva lavorare (i cosiddetti furbetti del cartellino) invece di mettere in condizione di lavorare bene chi aveva voglia di impegnarsi per fornire un buon servizio ai cittadini.

Come incide il Pnrr sulla equità intergenerazionale?
I giovani erano stati enormemente penalizzati già nella precedente crisi. Angela Merkel aveva parlato di una “generazione persa”. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Oggi si potrebbe parlare di una “generazione sospesa”, senza istruzione e senza lavoro. Investire in formazione è indispensabile. Bisognerà, però, anche ripensare a un sistema di welfare orientato verso i giovani. E non contro i giovani come è avvenuto con Quota 100. Una misura che non ha certamente portato i risultati prefissati. La staffetta generazionale (esce un anziano entrano tre giovani) non c’è stata. A conti fatti, con questa misura, ai giovani non è stato dato un lavoro. È stato lasciato, invece, maggiore debito.

Quali soluzioni sono possibili?
Il Documento di Economia e Finanze (Def) – approvato anche da quelle forze politiche che nel 2018 hanno introdotto Quota 100 – mostra come lo scorso anno a causa proprio di questa misura la spesa previdenziale ha raggiunto il picco del 17,1 per cento del totale. Si tratta di un debito che Draghi definirebbe cattivo. Bisogna invece puntare al debito buono. Ossia quel debito che finanzia investimenti che hanno un impatto sulla crescita futura e, che quindi, lascia ai giovani più sviluppo e conti pubblici sostenibili. Ciò è possibile solo con l’attuazione delle riforme. Del resto, lo scopo del Pnrr è proprio quello di lasciare un futuro migliori alle nuove generazioni.

Per la salute sono previsti 20 mld da destinare alla costruzione della sanità territoriale e alla digitalizzazione. Non avremmo dovuto e potuto utilizzare il Mes?
Sì, avremmo dovuto prenderlo subito. L’Europa ha messo a disposizione strumenti per la ripresa come il Ngeu, per l’emergenza (da utilizzare nell’immediato) come il Sure per il mercato del lavoro (lo abbiamo preso per 27 miliardi) e il Mes per la sanità. L’Italia avrebbe potuto utilizzare questi fondi (circa 37 miliardi) in tutto o in parte. È vero che siamo in una situazione di tassi bassi, ma il debito europeo del Mes è sempre più conveniente di quello italiano. Prendere il Mes consente sia di risparmiare in spesa per interessi sia di farne un uso molto flessibile. La linea di credito può essere usata per finanziare spese sanitarie dirette e indirette (dai tamponi ai termoscanner). Per attivarla, però, è necessario avere un piano. Come ha spiegato Draghi, nonostante la gravità della crisi sanitaria, questo piano non è stato predisposto: è la responsabilità del precedente governo.

Il Next Generation EU è soltanto un intervento straordinario o un primo passo verso un bilancio comune europeo?
Il Ngeu è uno strumento temporaneo: un treno che passa una volta sola. Dovrebbe diventare uno strumento permanente da inserire nella cassetta degli attrezzi che l’Europa può utilizzare nel caso di altre crisi. Renderebbe la costruzione europea più forte e più resiliente. Completare il progetto è necessario per renderlo più forte. La precedente crisi finanziaria ha dimostrato che un’unione monetaria senza un’unione fiscale funziona male. Il Ngeu è senza dubbio un passo verso una maggiore unione fiscale. Ma il consenso politico per questa trasformazione non c’è ancora.

L’Italia può giocare un ruolo in questa direzione?
Sì. È il maggiore beneficiario dei fondi. Un successo italiano sarebbe un successo europeo. Un’Italia più forte significherebbe avere un’Unione più forte. Ciò convincerebbe anche i più scettici (ad esempio, i paesi “frugali”) della bontà di uno strumento come il Ngeu.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient