L’hanno già ribattezzata “guerra del caffè”. E non riguarda la tecnica per preparare la bevanda che, in Questi fantasmi, induceva Eduardo a esclamare: «Quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo». In gioco, stavolta, c’è l’inserimento nel patrimonio immateriale dell’Unesco. Come riportato ieri da Repubblica, sono due le candidature che si fronteggiano: quella del “Rito del caffè espresso italiano tradizionale”, promossa da un Consorzio trevigiano, e quella della “Cultura del caffè napoletano tra rito e socialità”, avanzata dalla Regione Campania col supporto di 23 associazioni e migliaia di cittadini. Niente di strano se il Ministero delle Politiche agricole non avesse deciso di presentare entrambe le candidature, ma con quella campana “in subordine” a quella nazionale. Apriti cielo: dall’una e dall’altra parte è sceso il campo il fior fiore degli intellettuali per sostenere, documenti e foto d’epoca alla mano, che il caffè è un simbolo di tutto il Paese o che la tazzulella è indissolubilmente legata a Napoli e solo a Napoli.

Non si tratta della prima polemica su un’eccellenza alimentare di casa nostra. Soltanto pochi giorni fa, infatti, sindacati e associazioni datoriali pugliesi si sono schierati al fianco dell’assessore regionale Donato Pontassuglia che si sta opponendo al riconoscimento dell’Indicazione di origine protetta (Igp) al pomodoro di Napoli. Il motivo è molto semplice: il pomodoro lungo non sarebbe partenopeo ma pugliese, visto che il 90% della produzione nazionale è concentrato in Capitanata e che le aziende campane non fanno altro che prelevarne grosse quantità da Foggia e dintorni per poi rivenderlo come specialità propria.

Certe polemiche dimostrano come, per qualcuno, identità debba fare necessariamente rima con esclusività. Il caffè? Quello vero è solo napoletano. Il pomodoro? Quello originale è solo pugliese. La disputa è stucchevole e forse priva di senso, se si pensa che certi prodotti non sono “nati” in Italia ma sono stati importati, centinaia di anni fa, da località anche piuttosto lontane. Però, in questa “guerra tra bande” su due delle eccellenze agroalimentari nostrane, è un altro il pericolo che si annida: quello di un campanilismo fine a se stesso, capace più di tarpare le ali che non di mettere il vento in poppa all’economia che su certi prodotti si regge.

In questo momento, infatti, servirebbero maggiori unità d’intenti e concretezza. Il Covid ha messo a dura prova anche l’agricoltura e non saranno certo le polemiche sulle nomination a decretare la salvezza di un settore produttivo di grande rilevanza strategica per l’economia italiana e regionale. Basti pensare che, al momento, solo le esportazioni di prodotti agroalimentari made in Italy crescono dell’1,9% e, nel 2020, fanno segnare il massimo storico di sempre con un valore di 46,1 miliardi a dispetto delle restrizioni legate alla pandemia. Se davvero si vogliono difendere le eccellenze agroalimentari, non bisogna far altro che stimolare gli investimenti delle imprese, promuovere uno sviluppo sostenibile del territorio e, soprattutto, dotare la Campania e l’Italia di tecnologie, collegamenti stradali, ferroviari, marittimi e aeroportuali indispensabili tanto per l’agroindustria quanto per gli altri settori produttivi. Perché è con visione, strategie e investimenti che si rilancia l’economia del Sud e del resto del Paese. Non certo con i campanilismi e con le polemiche.