USA
Le promesse di Kamala Harris e il suo mondo sempre più post-europeo. Quel discorso che spezza ogni illusione
“Quello che temi di più, può incontrarti a metà strada” cantavano i Pearl Jam nella struggente ballata Crazy Mary. È stato a metà strada di questa tormentata campagna elettorale americana che il Partito democratico si è reso conto che la paura più grande, l’inevitabile sconfitta di Joe Biden e l’ascesa di Donald Trump, si stava inesorabilmente materializzando. Sembra accaduto anni luce fa. Ma fu probabilmente quel fulminante “non so cosa abbia detto e non credo che neanche lui lo sappia” pronunciato da Trump nel famigerato dibattito del 28 giugno a chiosa di una delle tante risposte farfugliate di Biden a sancire la fine all’avventura elettorale del Presidente in carica.
La lezione per gli schieramenti riformisti
Abbiamo già scritto in queste pagine della sua scelta onorevole e senza precedenti di abdicare senza combattere l’ultima battaglia. Un evento comparabile solo alla straordinaria compattezza del partito nell’incoronare Kamala Harris la settimana scorsa. C’è già una lezione qui per tutti gli schieramenti progressisti e riformisti dell’Occidente che invariabilmente si dividono in lotte fratricide lasciando praterie a delle destre tanto ciniche quanto pragmatiche nel contenere il dissenso interno. Ma c’è molto di più del realismo nell’ascesa di Harris ed è emerso in modo palese nella convention democratica. Il suo discorso a Chicago ha proposto una visione combattiva e positiva, incentrata sul tema americano per eccellenza, la libertà individuale sopra ogni altro valore. 40 minuti con riferimenti chiari al canovaccio di Obama dell’esperienza autobiografica multiculturale, con attacchi diretti al Trump condannato che deve ora fare i conti con un ex pubblico ministero. Ma soprattutto, nella terza parte del discorso, con un primo assaggio della visione del mondo che Harris porterà alla Casa Bianca se eletta.
Le promesse di Kamala
Ci sono qui molti aspetti positivi ed altri che dovrebbero portarci a riflettere. Kamala Harris ha professato sostegno al multilateralismo internazionale. Ha promesso di tenere testa ai tiranni orientali e avvertito senza mezzi termini che Trump sarebbe da loro manipolato in quanto vuole diventare uno di loro. Ha proclamato l’ambizione di riconquistare lo spazio e la corsa all’intelligenza artificiale. Ha ribadito la difesa strenua della sicurezza e dei valori americani e all’interno di essi dell’Ucraina. Su Gaza, tema delicatissimo per la base democratica, ha adoperato parole caute, reiterando il diritto di Israele a difendersi e dell’autodeterminazione dei Palestinesi. Ma quello che Harris non ha detto è forse più rilevante per noi di quanto ha effettivamente detto. Insistendo sull’eccezionalismo americano come elemento determinante, in modi che ricordano Reagan più che i suoi predecessori democratici, ha di fatto ridotto le alleanze internazionali ad un’appendice della leadership degli Stati Uniti.
Non ha menzionato mai l’Europa, cosa che probabilmente Biden avrebbe fatto. Non ha parlato dell’ordine mondiale sotto scacco dal radicalismo dell’estrema destra e neanche dell’Occidente come comunità d’intenti e di valori. Di fatto, ha implicitamente corroborato un classico manicheismo che è presente nella psiche americana in modo bipartisan. Il politologo conservatore Robert Kagan lo ha popolarizzato con dicotomie molto ficcanti: l’America è come Marte sempre pronta per la guerra mentre l’Europa è una Venere che si crogiola in un’utopia pacifista. L’America pensa al potere, l’Europa al paradiso. Il mondo è una giungla, mentre l’Europa pensa a curare il suo giardino (frase reinterpretata malamente dall’alto rappresentante uscente Josep Borrell). Non è America First, nel senso isolazionista e reazionario del termine trumpiano, ma sempre di una distinzione ontologica si tratta e Harris su questo è stata molto chiara.
Un mondo sempre più post-euroepo
I filosofi Jürgen Habermas e Jacques Derrida in un saggio a quattro mani scritto all’indomani dell’invasione in Iraq sostennero che esattamente questa mentalità americana dovrebbe scuotere noi europei e convincerci a creare finalmente una vera politica estera comune. Ad oggi, questa appare ancora come un miraggio distante, specialmente per tutto ciò che concerne la difesa. La tentazione più grande ora è di adagiarci sugli allori di una ipotetica vittoria di Harris e esalare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di un ritorno di Trump. Ma dovremmo tenere ben presente che il mondo secondo Harris sarà un mondo sempre più post-europeo.
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