Leonardo Attilieni, è un trentenne lucchese fiero della sua identità, erede di uno dei brand più conosciuti degli anni 90: Lelli Kelly, dove ricopre il ruolo di Art Director & Head of Digital Lelli Kelly Group. Cresciuto a pane e impresa nel 2020 insieme a Pier Giulio Alessandro Bendinelli amico d’infanzia, fonda un suo business: Stelt, una piattaforma italiana di vendita online dedicata esclusivamente a vini e distillati pregiati. Con Stelt stanno rivoluzionando un mercato a suo dire vecchio e autoreferenziale sul quale Attilieni ha molto da dire.

Dove sei ora? In giro per il mondo?
«No, sono sulle mie amate colline lucchesi, dove vivo, un posto meraviglioso a volte sottovalutato. Non potrei chiedere di meglio».

Dove sei nato?
«La mia famiglia è di Lucca e Lelli Kelly mette le sue radici qui negli anni ‘70, gestita dai miei nonni. Questa zona all’epoca era molto famosa per la produzione di zoccoli, ne esportavano centinaia di migliaia nel mondo soprattutto in America, poi negli anni ‘80 mio padre ha preso in mano l’azienda. Era un’epoca fortunata, ora non c’è più molto, da migliaia di aziende ne saranno rimaste si e no una decina».

Che cosa è successo? E perché voi invece siete sopravvissuti e cresciuti?
«Grazie a mio padre, capì in tempo che le aziende saltavano rincorrendo le richieste di mercato senza avere loro dinamiche di brand, così decise di fare il suo brand fondando Lelli Kelly e a quel punto fu lui a dettare i trend di mercato. Ha rivoluzionato il percorso del suo settore».

Un imprenditore nato.
«Avrebbe voluto fare il giornalista e lo scrittore, aveva iniziato l’università da 6 mesi quando la sua famiglia lo richiamò in azienda. Ma ha avuto un intuito formidabile».

Quale differenza c’è tra il fare impresa oggi, ai tempi di tuo padre e dei tuoi nonni?
«Sicuramente la parte più difficile spetta a me, in questo momento c’è una forte contrazione dei consumi e del mercato, 30 anni fa in Italia c’era più ricchezza ed un altro approccio all’acquisto. Negli anni ‘60 quando lo zio di mio padre cominciò non si doveva essere dei geni per fare impresa, c’era un boom incredibile, bastava che uno avesse più iniziativa rispetto alla media e in un attimo aveva successo».

Nonostante sia più difficile oggi anche tu hai deciso di fondare la tua azienda, perché?
«Perché mi hanno insegnato che fare impresa è la cosa più bella da fare venendo da una famiglia di imprenditori».

Come nasce l’idea di Stelt?
«Da un’esigenza prettamente egoistica, sono sempre stato appassionato di vino e avevo difficoltà a reperire i vini che mi piacevano nelle quantità che volevo, così me li sono comprati e sono arrivato ad averne talmente tanti che mi è venuta l’idea di cominciare a venderli».

Spendevi molto per i vini?
«Direi di sì».

La particolarità del vostro business è proprio il prezzo del vino e quindi il valore delle bottiglie.
«Si, se pensi che in qualsiasi enoteca il prezzo medio di scaffale è 30 euro, il nostro è 300».

A chi vi rivolgete?
«Vendiamo per l’80% all’estero in Asia e in America, il nostro è un pubblico che vuole e può spendere anche moltissimo per un prodotto che una volta aperto finisce, per un’esperienza».

Qual è la differenza tra una bottiglia di vino da 1000 euro e una da 50?
«La stessa differenza che c’è tra una borsa di Chanel e una di Zara e nel vino è ancora più accentuata. La produzione del vino è dettata da tanti fattori: territorio, meteo, ambiente, brand ed esclusività».

Però la borsa resta, il vino finisce in una serata e i soldi sfumano.
«È proprio questo il bello, il vino dura mezz’ora e la borsa di marca una vita, questione di scelte e di poterle fare».

Come si beve una bottiglia di vino molto cara?
«Rapidamente e senza farla troppo lunga».

Cosa ne determina valore secondo te?
«Direi la sbruffonaggine di chi si può permettere una bottiglia di un certo tipo, con i beni di lusso quello che conta non è il valore materiale del prodotto ma il valore immateriale, ovviamente il prodotto deve essere di alta qualità, ma non sempre chi acquista certi vini ne conosce o capisce il valore. Penso al consumatore orientale per il quale il vino costoso è uno status symbol, come la moda europea, in questo momento gli asiatici vanno pazzi per i vini della Borgogna e sono pronti a spendere cifre altissime. Stappare bottiglie del genere a pranzi di lavoro vuol dire dimostrare di essere arrivati».

Effettivamente il vostro slogan già dice tutto: “Fine Wines are not democratic”.
«Il messaggio è chiaro e duplice, solo in pochi si possono permettere certe bottiglie e solo in pochi sanno apprezzarne il gusto, ma è soprattutto uno schiaffo al politicamente corretto imperante».

In che senso?
«In tutti gli ambiti dal punto di vista della comunicazione si deve andare dietro al politicamente corretto, avere attenzione va bene ma solo fino ad un certo punto, non posso pensare che non si possano più prendere posizioni nette per accontentare tutti. Con la Stelt stiamo sbarcando a Manhattan e negli Stati Uniti anche prima di aprire devi assumere persone che si interfaccino con i tuoi dipendenti, cosa che spesso il manager o il direttore non può fare se non conosce perfettamente le regole. E facendolo rischia. Una follia».

Che clientela avete?
«Sia il singolo cliente che quello grande, alberghi o i ristoranti stellati, italiani ed esteri».

Perché scelgono voi che siete arrivati da pochi anni, non avete competitor?
«Il mondo del vino è all’età della pietra, è un mondo conservatore, prendersi il proprio spazio per chi come me viene dal mondo del marketing è un po’ come rubare le caramelle ad un bambino. La distribuzione dei prodotti a livello europeo e internazionale è in mano a pochi player che fanno il bello e il cattivo tempo. Per farti capire: se vuoi una cassa di vino molto esclusivo e costoso ti obbligano a comprare anche 18 bottiglie del loro secondo vino e 60 del loro primo vino, in questo modo da 6 che ne volevi te ne ritrovi un centinaio che non solo non avresti voluto ma proprio non avresti comprato, sono furbi. Il nostro motto invece è “no limits on quantity, no limits on purchase” e soprattutto una privacy totale, ovviamente siamo più cari del distributore. Non tutti ci vedono di buon occhio perché ci ritengono dei capitalisti del vino poco romantici, ma ne vale la pena».

Vini francesi o italiani?
«Senza dubbio vini francesi, perché sono molto più buoni e loro sono molto più bravi a farsi pagare il prodotto. Farsi pagare di più non vuol dire fare un prodotto migliore. Hanno anche il territorio, l’80% del territorio italiano anche se non ci facessero il vino sarebbe uguale».

Vanno molto di moda i vini cosiddetti “naturali”, cosa ne pensi?
«Il vino naturale è una moda, una trovata di marketing che ha funzionato per un po’ ma che ora sta per fortuna scemando. Vino naturale vuol dire tutto e niente, tecnicamente vuol dire che non ci sono solfiti aggiunti ma se non ci sono solfiti ci sono muffe e batteri che sono molto peggio dei solfiti. Le persone che si vantano di bere vini naturali capiscono poco di vino, sono vittime di una moda e nella maggior parte dei casi bevono vini difettati».

Cosa pensi di chi in nome dell’ambiente imbratta i monumenti per protesta?
«Non mi piace per niente, è una protesta che non porta nulla se non a gravare sui contribuenti per ripulire quello che loro rovinano».

Rispetto al pensiero ambientalista imperante oggi come ti poni?
«Per essere attenti all’ambiente non bisogna essere integralisti o Greta Thunberg, certo che sono attento all’ambiente, ma c’è anche la vita reale dove non si può sempre scendere a compromessi. Guarda nella moda, molte grandi aziende che qualche anno fa si erano unite decidendo di usare solo pelle vegana ne stanno uscendo perché non è sostenibile. Ognuno nel suo piccolo può cercare di ridurre la propria impronta ma poi bisogna essere anche pratici».

Ti senti tutelato dallo Stato come giovane imprenditore?
«No, lo stato non aiuta gli imprenditori in generale per questo stiamo guardando agli Usa dove le possibilità sono molte di più».

La vendita più alta che avete fatto?
«Un Domaine Leroy da 30mila euro ad ottobre ’23».

Ti dico delle parole e mi rispondi di getto.
Amicizia: «Ovviamente vino». Amore: «Come non dire champagne». Passione: «Pericolosa». L’ultimo libro che hai letto? «“Il mulino di Amleto” interessante, ma è stata una delle letture che più ho odiato nella vita, un testo che analizza il rapporto degli antichi con il cosmo». L’ultimo film che hai visto? «Amore e guerra di Woody Allen». L’ultimo viaggio che hai fatto? «New York». Se avessi solo un desiderio quale sarebbe? «Che gli esseri umani cominciassero a prendersi un po’ meno sul serio».

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