Ho assistito ieri, seduto in un banco di Montecitorio, alla commemorazione e al ricordo di Giorgio Napolitano. Due ore e mezza di partecipazione e ascolto vissute in una cornice retorica corposa: l’aula della Camera zeppa e silenziosissima mentre scorrevano le immagini TV del lento avvicinamento del feretro; le ritualità formali e scandite del cerimoniale d’arrivo a Montecitorio; i discorsi ufficiali densi e alti, anche quando stemperati dall’aneddoto o da una contenuta emozione. Tutto si configurava come una rappresentazione solida – umana e insieme solenne – della nostra Repubblica democratica, incardinata nella vita di un suo indiscutibile protagonista. Una storia di cui mi sono sentito, nel mio piccolissimo, ingenuamente e fieramente parte.

Poi mi è bastato varcare la soglia dell’aula per ritrovarmi risucchiato nel buco nero della chiacchiera pettegola, immerso nel famigerato Transatlantico. Hai visto le facce nere di quelli lì? Quanti applausi ha preso quello e quanti quell’altro? E le omissioni, quella parola fuori luogo, ma tu hai capito quel messaggio a chi andava? Piccole ciance innocenti fino a che non è arrivata la scossa, quella che ha fatto ondeggiare tutti i capannelli e ha dettato la linea di giornata. Il Sistema (mediatico) ha fatto l’inusitata scoperta che in aula era presente in forza il Sistema, e che  – ohibò – mancava il popolo, signora mia. In un battibaleno l’intensa cerimonia cui avevamo appena assistito è stata triturata e archiviata come un evento di Palazzo. E vedrete che oggi così se ne parlerà – temo – sui giornali: qualcuno lo farà con veemenza partigiana, altri lo lasceranno intendere tra le righe (e non sarà meno spiacevole).

Perché per molti – per troppi – nulla di ciò che si manifesta nell’arena pubblica italiana è mai classificabile – senza riserve – come importante, significativo. Come qualcosa che unisce e inorgoglisce, che può renderci fieri di quello che siamo, della nostra storia, dei nostri percorsi umani e politici. È un problema di autostima collettiva, su cui lavorare con pazienza e tenacia, sapendo che questo è forse il principale problema del paese. E comprende insieme una memoria condivisa da generare, il presente da vivere senza pregiudizi e un futuro da costruire con coraggio.

Lì dove alcuni hanno visto ieri un Palazzo estraneo o arroccato, io ho invece percepito la forza di una classe dirigente – politici, giornalisti, manager, burocrati – che, con tutti i limiti di questo mondo, si è unita con sobrietà, serietà e senza ipocrisie per salutare un uomo che ha contribuito a settanta anni di sviluppo democratico, di conquiste sociali, di confronto e dialogo politico. E l’ho vissuto come un momento bello, gratificante, arricchente per tutti. Come un ultimo regalo che Giorgio Napolitano ha fatto all’intero paese.