Il segnale di allarme si è manifestato a Milano lo scorso ottobre, quando il giudice delle indagini preliminari Tommaso Perna ha osato violare niente di meno che il sacrario dell’antimafia di Boccassini e Dolci, concedendo “solo” 11 misure cautelari in carcere su 153 richieste dalla procura. Parapiglia, sconcerto, indignazione. Ma come si permette un gip, di distanziarsi in modo così palese e significativo dall’ipotesi dell’accusa? Si permette, perché un giudice imparziale e terzo, cioè distinto e distante dalle parti, non può che ispirarsi all’articolo 6 della Cedu: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”.

E deve tenere come vangelo, sulla scrivania, l’articolo 111 della Costituzione: “Ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Ricordando che il legislatore costituzionale, benché una formale adesione alla Cedu datasse addirittura al 1955, sia approdato al principio del giusto processo solo nel 1999. E anche che la riforma che nel 1989 ha introdotto in Italia il nuovo processo penale con un sistema “tendenzialmente” accusatorio, non è stata mai completata con la separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Il ritorno all’inquisizione è prassi quotidiana

Non solo, perché quella tendenza alla vera terzietà del giudice ha subìto, da parte della Corte costituzionale e della cassazione, notevoli inquinamenti in direzione di un ritorno al sistema inquisitorio. Rendendo la figura del giudice troppo spesso simile a quella di un prigioniero, un vero vaso di coccio, privo dell’autorevolezza conferita storicamente dai simboli di toga e parrucca. Ma la verità è che, soprattutto nella parte meno giovane della magistratura, il ritorno all’inquisizione più che un sogno è prassi quotidiana. E la separazione delle carriere è diventata più un feticcio che un serio programma riformatore. Prima di tutto perché il muro elevato dalle toghe, quanto meno quelle più visibili ed esibizioniste, è altissimo e robusto. Lo dimostrano prima di tutto nel loro lavoro quotidiano. A fronte di un gip come Tommaso Perna che svolge semplicemente il suo ruolo di terzietà e indipendenza, non si contano i suoi colleghi i quali, un po’ per pigrizia, un po’ per reale subalternità al fascicolo costruito dalla polizia giudiziaria e sposato dal pm, si limitano a mettere una sorta di timbro notarile. E sprecano pagine e pagine per giustificarsi, ricopiando come bravi studenti le sentenze della cassazione che consentono loro di riportare pedissequamente l’ipotesi dell’accusa e di farla propria. Quante volte lo abbiamo letto? E quanti altri giudici, dopo quello delle indagini preliminari, hanno tenuto lo stesso comportamento?

La divisione

Si potrebbe dare un’interpretazione di tipo psicologico su certi atteggiamenti, e magari introdurre i famosi test ad adiuvandum. Oppure iniziare ad appoggiare una proposta dell’ex giudice milanese Guido Salvini, pure contrario alla separazione, ma favorevole a dividere i palazzi. Una visione di riforma architettonica che forse farebbe superare il famoso caffè preso insieme. Ma difficilmente aiuterebbe a scalfire quella consapevolezza dei magistrati di far parte di un vero gruppo di potere da cui è difficile staccarsi. A costo di non avere più argomenti contrari, di continuare a dire le stesse assurde bugie autodifensive anche quando, come è capitato due anni fa con i referendum, si propone una timida separazione di “funzioni”. Decidete all’inizio della carriera, proponeva il quesito sostenuto da radicali e Lega e dal capofila Carlo Nordio, se volete diventare giudici o pubblici ministeri. E poi non cambiate più. Apriti cielo. È cominciata la litania della “cultura della giurisdizione” di cui sarebbe religioso cultore il pubblico ministero, e del rischio della “sottopposizione del pm all’esecutivo”, che comporterebbe addirittura un attacco alla stessa democrazia. Inutile ribattere con argomenti della logica e della realtà. Nessuno conosce dieci casi italiani recenti in cui un pubblico ministero abbia realmente svolto indagini in favore dell’indagato. E sarebbe saggio ricordare ai distratti e agli smemorati che la Francia ha processato il ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti, ed è la prima volta di un guardasigilli in carica. E che negli Stati Uniti è alla sbarra Donald Trump, ed è la prima vota di un ex presidente. Due sistemi diversi tra loro, nel primo il pm è un funzionario che risponde direttamente al ministero, in Usa quello del district attorney è una carica elettiva nei sistemi statali e di nomina governativa in quello federale. Due mondi molto lontani da quello dell’Italia, perché in ambedue è garantita la terzietà del giudice, mentre il rappresentante dell’accusa ne è lontano e separato. Due sistemi che hanno la forza di processare i propri rappresentanti politici, anche se il pm non è quel soggetto totalmente “irresponsabile”, perché non deve rispondere a nessuno del proprio operato, come è in Italia.

Tutti contro Nordio

Ma dobbiamo essere proprio fieri del fatto di essere, in tema di terzietà del giudice, lontani da Germania, Svezia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone? Sono davvero tutti questi, sistemi totalitari senza democrazia? O non è vero il contrario? L’Italia arranca, sulle riforme di giustizia. E quella della separazione delle carriere, garanzia della terzietà del giudice, di cui è storicamente convinto un ex pm come il ministro Carlo Nordio, è sempre il drappo rosso sul muso del toro, per la casta dei magistrati. Vedono ovunque rischi per la democrazia. Anche se la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento, come articolata in un testo dell’Unione delle camere penali, forte di 70.000 firme raccolte tra i cittadini, prevede che pm e giudice continuino a far parte dello stesso ordinamento e si distinguano solo per carriere, funzioni e organizzazioni, con i due Csm. E anche se il giudice Giovanni Falcone, diventato icona anche di quelli che gli bloccavano la carriera e ormai oggetto di arredo, nella famosa foto con Borsellino, sul muro alle spalle di ogni toga televisiva, ha lasciato scritti di inequivocabile adesione alla separazione, loro tengono duro. Scrivono e vanno in tv, accarezzati dai travaglini di ogni colore. In mille si sono mobilitati con il sindacato Anm contro le riforme, preceduti dai loro maestri d’un tempo, i 500 ex procuratori guidati dall’avanguardia più conservatrice, quella dei torinesi Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Tutti contro la riforma, tutti contro Carlo Nordio. Il quale intanto sta preparando una proposta del governo. Perché? Non si sa. Quella degli avvocati, già in discussione al Parlamento, non va bene? Ma certo, anche loro hanno la toga, ma è quella sbagliata.

Avatar photo

Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.