Violando l’ordine del silenzio del Papa Sisto V, un grido salvò le funi per la posa dell’obelisco in Piazza San Pietro che, surriscaldate, stavano per prendere fuoco e spezzarsi. Così come allora, grido contro il silenzio dei vari commentatori sul vero contenuto del Recovery Plan del 12 gennaio, difensori del Governo con la favolistica ricostruzione che, se anche non andava bene il documento del 7 dicembre, miracolosamente in due settimane è stato migliorato il 12 gennaio.
Le cifre ballerine dimostrano il contrario: nella versione 7 dicembre, il piano di 193 mld euro prevedeva 100 mld dedicati a rimpiazzare vecchio debito, cioè sostituire debito italiano con debito europeo, e altri 93 mld per investimenti aggiuntivi. Nella seconda versione del 7 gennaio i miliardi erano diventati 222,03 con 155 di nuovi investimenti e solo 67 destinati a rimpiazzare il debito. Nella terza versione del 12 gennaio i miliardi sono stati lievemente ritoccati a 222,89.
Attenzione: nella prima versione l’effetto macroeconomico era stato quantificato, in un grafico intitolato «impatto Pnrr sul Pil (scostamenti percentuali rispetto allo scenario base» (pag. 105), al 2,3% nel 2026, cioè un incremento di circa 42 miliardi. Nella terza versione il titolo del grafico è rimasto uguale (pag. 35) con un incremento del 3% nel 2026, ma nel testo è stato precisato che l’incremento si riferisce al tasso di crescita. Alcuni pietosi commentatori sono venuti in soccorso agli sciatti estensori di questo documento interpretandolo come un incremento del Pil finale del 10%, cioè circa 180 miliardi. Cioè, circa 4 volte tanto quanto affermato in precedenza.
Si potrebbe chiedere alla Sciura Maria se si fida del salumiere che vende la stessa confezione di Parmigiano il lunedì a 1 euro e il martedì a 4 euro.
Al di là della miracolosa moltiplicazione dei miliardi delle previsioni del Pil, occorre tristemente osservare quanto segue: se anche fosse verosimile che impiegando 155 miliardi del Recovery plan si possa ottenere un incremento cumulato del Pil del 10% nel 2026, visto che abbiamo avuto una caduta nel 2020 del 10%, questo significa che tutto ciò che il governo vuole fare con il Recovery Plan serve semplicemente a ritornare dove saremmo stati senza la pandemia. Cioè, siamo alla casella 58 del gioco dell’oca: paga pegno e torna alla casella di partenza, ovvero ripristiniamo le magre previsioni di crescita pre-pandemia, quella crescita anemica allo 0,5% all’anno, con l’economia bloccata dalla produttività stagnante e soffocata dalla burocrazia.
La visione del governo è quella di usare il Recovery Plan per tappare il buco che si è creato con la pandemia, mentre il resto dell’Europa ha promesso ai propri cittadini – e questo è il punto fondamentale – un salto di qualità, un forte miglioramento rispetto a quello che sarebbe stato l’andamento dell’economia pre-pandemia. Next generation Eu è una promessa per il futuro per l’Europa, il Pnrr italiano è un cerotto sulla ferita.
Cosa avverrà dopo nei piani del Governo? La preoccupazione più grande nasce dalla questione di quali siano i costi e benefici indiretti, oltre a quelli contabili, che si materializzeranno secondo le linee di implementazione delle strategie proposte. Ci sarà più o meno statalismo?
La risposta con alcuni esempi: se io elimino un adempimento burocratico, rendo più produttiva l’industria privata che non deve spendere risorse per quell’adempimento. Ho liberato risorse per il mercato. Se io invece digitalizzo la pubblica amministrazione, rendendo più produttivo il processo dei burocrati pubblici per imporre lo stesso gravame al sistema delle imprese, ho ottenuto l’effetto contrario. Ho fatto una spesa di investimento per la digitalizzazione, ho il beneficio aggiuntivo di risparmio di un addetto pubblico e il costo aggiuntivo di burocrazia inutile per le migliaia imprese che sopravviveranno nel mercato.
Altro esempio: se “investo in sistemi digitali di monitoraggio da remoto per la sicurezza delle strade”, non miglioro la produttività dei trasporti privati riempiendo le buche, ma faccio collegamenti informatici che servono all’impiegato pubblico per… sapere prima che c’è un ingorgo!
Sul piatto del futuro dell’Italia ci deve essere la scelta se ampliare o ridurre l’intervento dello Stato nell’economia e siccome i concorrenti europei vanno verso una riduzione dell’intervento pubblico per liberare l’iniziativa privata, investimenti privati, risorse private per l’innovazione, il problema dell’Italia è che si trova fuori asse con l’Europa del futuro. Che cosa possiamo dire a un giovane italiano? Gli promettiamo il posto fisso in una pubblica amministrazione più digitalizzata quando il suo collega tedesco o francese fa carriera in ricerche di robotica, nanomateriali, genetica molecolare?
Ecco perché la crescita dell’Italia è stagnante e continuerà ad essere stagnante con questo modo di fare, mentre i concorrenti europei corrono.
*Università di Perugia