La presentazione del romanzo Il tesoriere, di Gianluca Calvosa edito da Mondadori, è l’occasione per Massimo D’Alema di tornare a dire la sua, in un confronto pubblico che cade a Roma nelle giornate dello showdown dei partiti verso il Colle. Perché è chiaro a tutti che D’Alema è il kingmaker di una buona parte della classe dirigente attuale dem, da Zingaretti al sindaco romano Gualtieri, prima di Bettini. L’appuntamento del suo ritorno in campo è organizzato da quelli di Formiche, sempre attenti a rispettare gli equilibri bipartisan, ed ospitato in quella terra di tutti e di nessuno che è il Centro Studi Americani. Fa gli onori di casa Chicco Testa, e sul palco accanto all’autore e a D’Alema ci sono Anna Finocchiaro, fondazione Italia Decide, e il più intellettuale dei socialisti ancora oggi attivi, Fabrizio Cicchitto.

Il romanzo racconta, affabulandola, la storia di Gianni Cervetti, colonna del Pci (tendenza migliorista milanese) e tesoriere dal 1975, quando successe nell’incarico ad Armando Cossutta. E il racconto di quella storia rievoca subito la grande divisione tra le due sinistre dai fatti di Praga alla fine degli anni Ottanta, e pesca a piene mani in una vicenda mai del tutto chiarita. La dipendenza di Botteghe Oscure da una bottega più oscura di tutte, ma dalla cupola dorata. L’Oro di Mosca, come Cervetti definiva il flusso di denaro (per l’esattezza: di dollari) che dall’Urss è arrivata nei forzieri del più grande partito comunista occidentale, quanto e come ha influenzato le scelte strategiche del Pci. Moltissimo se, a guardare la verità storica, il segretario Enrico Berlinguer decise nel 1976 di interrompere motu proprio questo flusso, bloccando il “conto sovietico” e facendo sapere a Mosca di doversi ritenere tutti a mani libere. «Il nostro partito sapeva, perché fino al 1956 partecipò anch’esso, che Mosca sosteneva con cifre impressionanti la sinistra italiana», spiega Cicchitto. E va oltre: Per questo fare la scelta autonomista per noi fu particolarmente impegnativo, perché per decenni sapevamo che gli Stati Uniti pagavano la Dc e l’Unione Sovietica manteneva il Pci. Noi lì in mezzo, da soli, senza finanziamenti, abbiamo dovuto contare sulle nostre sole risorse».

Ma non si tratta di un simposio accademico; i protagonisti dell’incontro lavorano sull’oggi. La legge sul finanziamento pubblico ai partiti è la vera vittima di un decennio populista dominato dalla scure dei Cinque Stelle. Tutti concordano. «Vanno ritrovati gli strumenti per la democrazia, perché non può esistere politica senza risorse», taglia corto Anna Finocchiaro. D’Alema cattura il microfono per rievoca i suoi viaggi a Mosca, i suoi rapporti con i tesorieri, a partire proprio da Gianni Cervetti. Ma il tema è come si va avanti adesso. «Abbiamo un disperato bisogno di ritrovare la politica vera. Le idee, le storie, le posizioni chiare. Trovo aberrante che un editorialista abbia scritto che finalmente abbiamo un presidente del Consiglio di cui si ignora che cosa ha votato». E continua: «È ora di avere una legge chiara sul finanziamento della politica, una legge sulle lobby, una sul conflitto di interesse». Altrimenti si dà adito a troppi errori interpretativi sui quali si può insinuare un potere diverso, non democratico. «La magistratura – dice infine D’Alema – a un certo punto ha perfino inventato un reato, quello della concussione ambientale. La bestia nera dalla quale si doveva liberare l’Italia era la politica, erano i partiti», dice con un filo di orgoglio. «Un gioco che ha fatto comodo ad altri, a interessi e poteri che stanno fuori dall’Italia», concorda sul punto Cicchitto. «I primi a usare la parola casta furono le Brigate Rosse», ricorda D’Alema. «Poi divenne il titolo di un libro e da lì in poi lo slogan dei populisti».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.