Anche quest’anno, a metà dell’estate, è riesploso il dibattito politico sugli sbarchi, sulla presunta invasione dell’Italia, sul coordinamento dei soccorsi e sul presunto abbandono del nostro Paese da parte dell’Europa.

Grande è la confusione politica e mediatica su questi temi sui quali cercherò brevemente di dare alcuni chiarimenti affinché il libero confronto di idee possa basarsi su una migliore conoscenza delle norme e dei fatti.

Il primo punto che va chiarito è che il dovere di soccorso scaturisce da un obbligo derivante direttamente dal diritto consuetudinario marittimo e da numerose convenzioni internazionali. Tra esse richiamo in particolare l’attenzione sulla cosiddetta Convenzione SAR (Search and Rescue) del 1979 laddove prevede che «le Parti si assicurano che venga fornita assistenza ad ogni persona in pericolo in mare. Esse fanno ciò senza tener conto della nazionalità o dello statuto di detta persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata». Nessuna considerazione di tipo politico o ideologico sui motivi per i quali le persone sono partite nonostante il chiaro pericolo di naufragio, né su quale sia la condizione giuridica delle persone da salvare deve infatti interferire con il dovere di soccorso che non prevede nessuna eccezione.

La Ministra dell’Interno Lamorgese ha chiesto l’attivazione di un meccanismo che coinvolga gli Stati europei per consentire un approdo sicuro alle navi delle Ong battenti bandiere europee attualmente impegnate in operazioni SAR in acque internazionali e ha riproposto la necessità di una redistribuzione obbligatoria dei migranti salvati in mare. Entrambe le richieste sono totalmente condivise da chi scrive, ma almeno un paio di questioni dirimenti vanno precisate. La prima è che, allo stato attuale dei fatti non c’è, verso l’Italia, nessuna pressione in termini di arrivi che giustifichi l’avvio di un piano di ricollocamento straordinario verso altri Paesi Ue. Un piano di redistribuzione avente le caratteristiche di cui dirò tra poco, va fatto quanto prima non perché l’Italia è in sovraccarico, ma perché va avviato un superamento del logoro meccanismo attuale disciplinato dal Regolamento Dublino III il quale prevede che la competenza all’esame delle domande di asilo si radichi nel paese di primo ingresso, creando in tal modo uno squilibrio strutturale tra i paesi Ue che hanno frontiere esterne e che si trovano sulle vie di fuga dei rifugiati (come l’Italia, ma anche Grecia, Malta, Bulgaria, Spagna e per certi aspetti la Croazia). Si tratta di uno squilibrio oggi “corretto” dagli stessi richiedenti asilo che in massa lasciano subito dopo l’arrivo, pur non potendolo fare, i paesi di primo ingresso, tra cui il nostro. Gli arrivi via mare (come dalla rotta balcanica) verso l’Italia sono aumentati nel 2021, ma rimangono molto modesti in termini assoluti; dal 1 gennaio al 31 luglio 2021 sono giunte via mare solo 28.870 persone. Il fatto che si tratti di quasi il doppio rispetto al 2020 non modifica in modo sostanziale il quadro se si guarda al recente passato (nello stesso periodo del 2017 gli arrivi erano stati di quasi centomila persone), ma soprattutto se si adotta la prospettiva di riforma del citato Regolamento di Dublino con l’introduzione di un criterio basato su rapporto tra numero di domande di asilo, popolazione e Pil del paese di arrivo. Se una riforma basata su questo nuovo criterio fosse stata appena approvata, non ci sarebbe nessun richiedente asilo da ricollocare dall’Italia verso altri Paesi, in quanto l’Italia rimarrebbe largamente dentro la sua quota.

Queste evidenze vanno sottolineate non solo per onestà intellettuale, ma anche perché l’Italia, se vuole ottenere ascolto in Europa, deve essere credibile e non è gridando scompostamente all’emergenza che non c’è che otterrà un cambio di direzione.

La prima urgenza che deve affrontare il nostro Paese è quindi tutta interna e consiste nel ricostruire un sistema di accoglienza ed inclusione dei richiedenti asilo e dei rifugiati che sia adeguato al cambiamento storico che stiamo vivendo: ovvero un sistema che esca dallo stato dell’eterna emergenza strutturandosi come un ordinario servizio sociale del territorio destinato ad una categoria di persone, i rifugiati, che fanno parte della società, ora come in futuro. Nessun segnale sembra però andare in questa direzione perché il sistema SAI (Sistema di accoglienza ed integrazione) voluto dalla legge 173/2020 che ha parzialmente cancellato le follie dell’epoca salviniana, rimane inadeguato come lo era il suo predecessore, lo SPRAR, ed oggi è persino bloccato finanziariamente, mentre il Ministero dell’Interno continua a investire tutte le sue energie nelle strutture emergenziali: in genere luoghi di degrado o al più di parcheggio delle persone, dissipative di ingenti risorse pubbliche e generatrici di tensioni sociali, ma nello stesso tempo utilissime a mantenere in buona efficienza la fabbrica della paura.

La seconda dirimente ragione per la quale l’Italia tramite la sua ministra dell’Interno, che lancia il suo appello niente meno che dalla Libia, non è credibile nel richiamare l’Europa alle sue responsabilità sul soccorso in mare, è data dal fatto che il Governo in carica si è distinto per avere tenacemente continuato, solo con toni e mezzi meno rozzi, ad ostacolare l’operato delle organizzazioni umanitarie che si occupano del soccorso in mare supplendo le assenze degli stati e salvando ciò che rimane delle nostra logorata dignità di europei.

Anche su questo piano la prima urgenza è tutta di politica interna e consiste nel mettere la parola fine alla criminalizzazione dei soccorsi. Solo ripudiando, senza finzioni e furberie, l’ideologia delle forze politiche che vogliono la fine dell’Europa quale spazio di libertà, democrazia e giustizia (come nella teorizzata democrazia illiberale di Orban e dei suoi seguaci nostrani) e riportando la tutela dei diritti umani fondamentali e il rispetto del diritto d’asilo – e quindi, la fine dei respingimenti e della esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi – al centro dell’azione istituzionale, l’Italia può acquisire quel profilo etico e politico necessario a costruire nell’Unione europea alleanze non facili ma possibili per invertire l’attuale forte spinta disgregativa dell’Europa stessa.
Come ho cercato di evidenziare più volte, e da ultimo su queste pagine il 22 maggio scorso, nella attuale proposta di Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo si legge una grave rottura con la tradizione giuridica ed umanitaria del nostro continente a favore di una visione delle migrazioni solo come fenomeno da contrastare con tutte le forze e con tutti i mezzi possibili, anche illegali, unitamente a un malcelato disprezzo per il diritto d’asilo, visto non più come diritto fondamentale, ma come orpello per anime belle di cui liberarsi nella sostanza, non potendolo fare nella forma (anche se la Danimarca con la nuova legge propugnata dal governo “di sinistra” ambisce a liberarsene persino nella forma) .

Fa bene la Ministra dell’Interno a chiedere la redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo in tutta l’Europa, ma per evitare una vuota retorica dovrebbe dire con chiarezza che l’Italia vuole un cambiamento profondo del contenuto di quel Patto in modo che il principio di solidarietà e di equa distribuzione delle responsabilità, che dovrebbe essere alla base del sistema di asilo europeo, sia realmente applicato e che quindi la nozione di solidarietà non può essere camuffata con intese tra Stati per impedire l’arrivo dei rifugiati finanziando, come fa anche l’Italia, interventi opachi in Libia e in altri paesi terzi.

Poiché la riforma di quel sistema normativo che oggi, in modo precario, regge il diritto di asilo nella Ue difficilmente ci sarà per impossibilità a trovare il consenso nel Consiglio Europeo e con il Parlamento, la strada politica sulla quale l’Italia potrebbe impegnarsi in modo limpido e innovativo è quella di usare gli strumenti già disponibili a legislazione vigente, dando vita a un accordo di cooperazione con gli Stati disponibili a una gestione comune degli arrivi dei richiedenti asilo che sono stati soccorsi e portati in Italia (nessuna trattativa va condotta sulla pelle delle persone ancora in mare) basato sugli stessi due macro criteri da mettere alla base delle future normative europee sull’asilo: la redistribuzione dei richiedenti in base a Pil e popolazione e la contestuale valorizzazione dei legami significativi dei richiedenti stessi (almeno i legami parentali e gli eventuali precedenti soggiorni per studio e lavoro in uno dei paesi coinvolti).

A chi obietta che sto proponendo di nuovo il cosiddetto (ex) accordo di Malta avanzato proprio dall’Italia nel 2019 rispondo che non è affatto così. Quell’accordo era del tutto confuso nella definizione dei criteri, nonché arbitrario nella sua attuazione (di fatto non avvenuta).

Il necessario salto di qualità di cui qui scrivo consiste in una sorta di quasi anticipazione della riforma normativa con l’adozione, seppure limitata e temporanea, di nuovi criteri chiari ed equi ai quali gli stati che danno vita all’innovazione si vincolano, dimostrando così ai cittadini europei che cambiare il sistema d’asilo europeo è possibile mantenendo quei valori senza i quali l’Europa si trasforma in una fortezza sempre più vuota e violenta.