Era prevedibile che la procura di Milano facesse muro e negasse tutto. “Spaccatura? Ma quale spaccatura?”. Il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco risponde con queste parole secche a chi gli chiede se ci siano tensioni e divergenze tra i pm del capoluogo lombardo all’origine della consegna dei verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara da parte del pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo al fine di autotutelarsi di fonte a quelle che lui considerava inerzie dei colleghi dell’ufficio. Una vicenda su cui il procuratore di Brescia Francesco Prete sta valutando l’apertura di un fascicolo conoscitivo.

È la logica della polvere sotto il tappeto che Francesco Greco sembra aver scelto prima di andarsene in pensione tra pochi mesi. Basta ricordare che recentemente era stata scatenata la guerra sulla sentenza di assoluzione nel caso Eni Nigeria tra la mitica procura e il Tribunale. Se ne erano dette da tutti i colori, prima di elaborare e pubblicare un comunicato congiunto a doppia firma, il procuratore Francesco Greco e il presidente del Tribunale Roberto Bichi.
«La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce» si leggeva nella nota diffusa alla stampa.

Il comunicato puntava a far credere che non era successo niente. Era l’urlo del mitico Everardo Della Noce durante la trasmissione “Quelli che il calcio”. Per ridere. Qui invece c’è davvero poco da ridere. In realtà la procura aveva spedito ai colleghi di Brescia competenti a indagare su quelli di Milano le parole del testimone largamente inattendibile, sempre lui Piero Amara, secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni Nerio Diodà e Paola Severino, ex ministro della Giustizia, avrebbero avuto “accesso” al presidente del collegio giudicante di Eni Nigeria Marco Tremolada. A Brescia il gip, su richiesta conforme della locale procura, archiviava senza che vi fossero iscrizioni nel registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata gravissima. Tanto che il presidente Roberto Bichi aveva preso una posizione molto netta mettendo nero su bianco il termine “insinuazioni”.

Poi sono arrivati i tarallucci e vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in cristalleria. Nonostante il pubblico ministero Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà intellettuale avesse affermato «qui sia chiaro non c’è la pistola fumante». La richiesta di condanna dei vertici Eni poggiava su una sorta di prova logica di tipo deduttivo nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Mani pulite. Insomma la sentenza di assoluzione non sarebbe arrivata come un fulmine a ciel sereno. Era nelle cose più che possibili.

La procura aveva tentato il giochino per forzare la mano. Aveva tirato la pietra. Poi vista la “mala parata” faceva marcia indietro ricucendo con il Tribunale. Nessun giornale nessuna agenzia di stampa disse “ba”. Tutti si limitarono a prendere atto del comunicato “riparatore”. Adesso purtroppo il pm Storari rischia di fare la fine del vaso di terracotta tra vasi di ferro. Nella storia milanese i pm “isolati” in procura non hanno mai avuto una buona sorte. Tiziana Parenti. Alfredo Robledo.