«La mia maggioranza sta diventando realtà». Alla luce dei risultati di ieri, le parole del leader dei popolari al parlamento Ue, Manfred Weber, hanno un retrogusto amaro. La Commissione europea, presieduta per la seconda volta da Ursula von der Leyen, è passata con un sostegno ridotto rispetto alle attese. Su una maggioranza richiesta di 360 membri (su 720 seggi totali), i sì sono stati 370, i contrari 282, gli astenuti 36.

A scrutinio palese, gli europarlamentari che hanno sostenuto il nuovo esecutivo europeo sono stati 31 in meno rispetto al voto (segreto) di luglio, con cui von der Leyen aveva ricevuto il mandato di formare la nuova Commissione. In termini percentuali è una fiducia che si ferma al 54%. Indietro di 11 punti rispetto a quella ottenuta nel 2019. Ma il distacco è ancora più netto rispetto alle precedenti commissioni. Siamo infatti al minimo storico da quando, con il Trattato di Maastricht, la Commissione deve ottenere il vaglio dell’emiciclo. Senza ripassarle tutte, basta pensare che Romano Prodi nel 1999 si era guadagnato il sostegno dell’87% dei 589 europarlamentari di allora.

I voti contrari di ieri meritano un’analisi. Al netto dei casi italiani. A ben guardare, il “no” degli indipendenti eletti nella lista del Pd – Cecilia Strada e Marco Tarquinio – avremmo potuto prevederlo. Infatti contano molto di più le spaccature nazionali interne alla sinistra. I greci nel gruppo dei verdi e i francesi in quello dei socialisti non hanno seguito l’ordine di scuderia. Casus belli la presenza di Fitto nella lista dei 26 commissari. Di tutti questi esempi, individuali e non, sarà interessante seguirne il comportamento nei prossimi 5 anni. Per ora è sufficiente notare che, mentre i patrioti (anti-Ue per eccellenza) hanno comunque votato per 6 commissari e per altri 3 si sono astenuti, Left e verdi hanno sostenuto rispettivamente 5 e 21 commissari. E se ci ricordiamo che i verdi facevano parte della passata maggioranza Ursula, e che dovrebbero esserlo di quella attuale, arriviamo alla conclusione che l’opposizione all’Europarlamento non è più di destra. Ma è sempre più di sinistra.  Siamo sicuri che abbia voluto dire questo Weber, martedì sera, quando ha parlato di «mia maggioranza»? Probabile che oggi sarebbe più cauto nell’attribuirsi la paternità di un risultato così esposto a tante interpretazioni. Specie se si tiene conto di come si è arrivati a questo. Mesi di trattative, veti incrociati e polemiche che – come si è detto più volte su queste colonne – hanno portato acqua al mulino di chi non crede nell’Europa.

Ora è lecito chiedersi cosa succederà. Ieri Ursula ha ripreso quanto detto in questi mesi. Sia nel discorso programmatico di luglio sia nei commenti post-estivi che hanno fatto seguito alla pubblicazione del Rapporto Draghi. «La prima grande iniziativa della nuova Commissione – ha promesso – sarà una Bussola della Competitività, che si baserà sui tre pilastri del Rapporto Draghi: innovazione, decarbonizzazione e sicurezza». L’augurio è che il documento del nostro ex premier non diventi una sorta di bigino per tutte le stagioni. Utile per far dare un titolo ai giornali, inattaccabile ai tavoli delle trattative, ma altrettanto irrealizzabile in quanto – la scusa è sempre pronta – la burocrazia vi si è messa di mezzo. «Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!», frigna Jake dei Blues Brothers. Ecco vorremmo evitare sceneggiate simili.

D’altra parte, se le cose dovessero andare storte, la responsabilità sarebbe anche da attribuire a Weber. Con una maggioranza tanto al lumicino, von der Leyen può essere tentata di cadere nello stesso errore commesso nella passata legislatura. Ovvero evitare il più possibile che i commissari siano esposti alle forche caudine del Parlamento. Questa volta però Weber è probabile che abbia mangiato la foglia e non finirebbe nella stessa trappola. Anzi. All’insegna del “muoia Sansone con tutti i filistei” e pur di mettere in difficoltà von der Leyen, il leader popolare sarebbe disposto a sacrificare l’intera Commissione. Oppure alcuni suoi singoli membri. A Strasburgo infatti molte delle mosse targate Fitto o Ribera troverebbero la scontata bocciatura delle rispettive opposizioni.

Se non fosse che ne va della nostra vita quotidiana, si potrebbe dire che tutto questo è molto avvincente. La prima a dirlo, a ragion veduta, potrebbe essere Giorgia Meloni, per la quale uno scenario tanto intricato è una potenziale occasione. È vero che la nostra premier non è gradita a molti. Ma sono anche molti quelli che, in questi due anni di Palazzo Chigi, si sono dovuti ricredere sul suo essere un’abile mossiera. E in un momento in cui gli altri leader Ue sono in affanno, il solo governo che appare stabile è appunto quello italiano. Litigi interni alla maggioranza permettendo.