Luiz Ruffato, nato nel 1961 a Cataguases (Minas Gerais), figlio di immigrati italiani, da noi lo conoscono in pochi, diciamo soltanto gli appassionati di letteratura, fra i quali dobbiamo annoverare i responsabili del piccolo editore La Nuova Frontiera, che da tempo, con intuizione benemerita, ne stanno traducendo i romanzi, ma in Brasile viene considerato uno dei maggiori narratori contemporenei. Del resto, basterebbe leggere qualche riga per intuire la potenza espressiva di questo scrittore, i cui libri magari non figurano nelle classifiche di quelli più venduti, ma forse proprio per questo possono rivelarci qualcosa di autentico.

La prima cosa che colpisce nella sua prosa è che lui non va mai a capo: era così in Fiori artificiali, pubblicato nel 2015, continua ad esserlo in La tarda estate (traduzione di Marta Silvetti, pp. 239, 17,50 euro), uscito nei mesi scorsi. Una scrittura compatta, come una parete continua, alla Thomas Bernhard, ma senza la rigidità novecentesca dell’autore austriaco perché priva di ogni oltranzismo concettuale. Quello di Ruffato è un muro del pianto. Come se dicesse ai suoi lettori: infilate qui i vostri bigliettini. Me ne prenderò cura. Farò tutto il possibile per offrirvi un po’ di conforto visto che io sono come voi. Privo di certezze. Non verrò salvato da alcun ragionamento. Le belle frasi che riuscirò a produrre mi trascineranno semmai ancora più a fondo nel vortice insieme ai vagabondi e ai derelitti. I suoi personaggi sono quasi sempre ammaccati, feriti dalla vita, tuttavia non vogliono rendere le proprie esistenze segretamente affascinanti. Se non sciogli i tuoi nodi, questi si ripresenteranno a distanza di una o più generazioni.

Prendiamo Oséias Moretto, protagonista di quest’ultima opera, il quale a marzo, al termine dell’estate australe, torna dopo tanti anni d’assenza nel proprio villaggio d’origine e trova tutto irriconoscibile. Saranno sei giorni terribili. Scende dall’autobus, proveniente da San Paolo, e il primo uomo che vede, un venditore di panini, suo ex compagno di classe, lo manda subito a quel paese: «Ma certo! Andavano a scuola insieme… Alcides… Alcides l’animale, come lo chiamavamo, perché non solo era molto robusto – era già grasso all’epoca – ma anche estremamente crudele, non solo con noi, suoi compagni, che picchiava regolarmente, ma con qualsiasi cosa si muovesse: uccideva gli uccellini con la fionda, annegava i gattini appena nati…».

Questa brutalità si ripropone tale e quale in tutto il romanzo, bruciando sul nascere ogni illusione di rinnovamento sentimentale. La famiglia residua, dalle sorelle, Rosana e Isabella, alla nipote, Tamires, non fa festa a Oséias, limitandosi ad ospitarlo quasi fosse un estraneo. Lui esce per strada e non sa trattenere lo sconforto: «La città è brutta, sporca, fetida di piscio». La vecchia rua do Comércio, inutilmente vagheggiata prima di rivederla, sembra un pattume: «Il sole castiga le teste nude dei passanti». Il mondo trascorso pesa come un macigno e lentamente svela le ragioni irrisolte che hanno spinto l’uomo a rifarsi vivo sulla scena della sua prima formazione: un matrimonio sbagliato, un figlio perduto, la madre morta di cancro… Soprattutto l’assurdo suicidio della sorellina, la piccola Lìgia, resta sospeso come una domanda angosciosa a cui nessuno ha mai saputo rispondere.

Ecco un Brasile assai poco noto, molto distante dalle magie artificiali del Pan di Zucchero e dai proclami di Bolsonaro, fatto di cortili spogli invasi dalla biancheria appesa ad asciugare, tavole calde con cibi avvizziti, supermercati economici, baracche pericolanti, destini strozzati e incompiuti, che nemmeno l’occhio indiscreto delle telecamere sui droni, spavalde reginette delle serie televisive più acclamate, sarebbe in grado di smascherare. Ciò che conta è la puzza di benzina agli angoli delle vie scalcinate, i teloni bucati sui davanzali: «Strada senza ritorno, errori che portano ad altri errori, e cinquantatré anni buttati al vento. È questa la vita?». Il giovane Oséias era scappato sperando di mettersi i fantasmi alle spalle. O almeno di tacitarli. Ma certe cose te le porterai sempre dentro. E al ritorno troverai tutto uguale. Se non peggiorato.

Alcuni incontri, in particolare, lasciano il segno: quello con Marilda, la prima fidanzata, impegnata a pulire lo sporco che le fanno i cani in casa, poi quasi ubriaca, vecchia e sola, mentre vorrebbe concedersi ancora per l’ultima volta, e quello con il vecchio professore di storia dell’arte, Mendonça, ridotto ad abitare in una catapecchia, logorroico, scartato da tutti perché omosessuale, al quale lo scrittore mette in bocca una specie di obsoleta filosofia da Selezione dal Reader’s Digest.

Nelle pagine finali, poco prima che Oséias si rechi al cimitero a rendere omaggio alle tombe dei Moretto, laddove finisce anche tutta l’immigrazione italiana in Sud America, Luiz Ruffato mette davvero il dito sulla piaga rievocando, come già gli era accaduto nei Fiori artificiali, l’irrisolto rapporto col genitore assente, fino a spiegare le innumerevoli e drammatiche conseguenze che può avere ogni sconfitta educativa, sempre legata alla falsa immagine che i padri si fanno dei propri figli: «Mi trovava timido, pauroso, e il mondo è degli intrepidi, degli audaci… Ho fallito come figlio, ho fallito come marito, ho fallito come padre… Forse la rabbia di papà era dovuta al fatto che, di tutti, io ero il più simile a lui, di viso, di fisico, nei modi e che sognava per me grandi cose, magari perfino una foto con la toga da appendere alla parete del salotto…».