“Non avrebbe dovuto mentire a chi credeva in lui”, dice improvvisamente e inaspettatamente l’ex presidente brasiliano Lula su Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac in carcere a Oristano dal 14 gennaio 2019. Chiede scusa ai parenti delle vittime e accusa il latitante cui lui concesse asilo politico di averlo ingannato proclamandosi innocente. Cesare Battisti ha sempre rivendicato la propria appartenenza ai Proletari armati per il comunismo, un gruppo che negli anni settanta ha usato le armi anche per uccidere. Certo, è evaso da un carcere e non si è mai consegnato alla giustizia italiana. Ha scelto la latitanza, prima in Francia, poi in Brasile e infine in Bolivia, dove è stato arrestato il 12 gennaio 2019. Ma poi, nel momento in cui ha rivendicato anche davanti a un magistrato la responsabilità politica dei quattro omicidi (compreso quello del gioielliere Torregiani, che non aveva commesso) per cui era stato condannato, ne ha assunto di conseguenza anche quella giudiziaria. Al di là dell’Oceano. Costernato, angosciato, frustrato. Non bastano gli aggettivi all’ex presidente del Brasile Inacio Lula da Silva per giustificare il proprio errore nel concedere asilo politico a Cesare Battisti. Chiede scusa ai parenti delle vittime, quelle quattro persone per i cui assassinii l’esponente dei Pac sta scontando la pena dell’ergastolo. Ma Lula pare soprattutto preoccupato di mandare un messaggio al suo popolo, e anche alla sinistra italiana con cui il leader brasiliano aveva sempre avuto eccellenti rapporti fino a quando qualcosa si era incrinato proprio a causa della latitanza di Cesare Battisti, che fu garantita per dieci anni proprio grazie a quel provvedimento di asilo politico. Che fu difeso con forza, all’epoca, proprio per la scarsa fiducia nel sistema giudiziario italiano. In molti si sono chiesti perché, e perché proprio ora, Lula abbia sentito il bisogno di rivangare vicende di cui in Italia non si parla più, dall’arresto dell’esponente dei Pac del gennaio 2019 e dall’ammissione delle proprie responsabilità nell’interrogatorio di due mesi dopo. È passato un anno e mezzo, nel frattempo Lula nel suo Paese veniva arrestato e condannato per corruzione e riciclaggio. Certo, nel prossimo novembre ci saranno in Brasile importanti elezioni che vengono paragonate a quelle americane di Midterm, e può essere che il leader, tuttora molto amato, della sinistra, voglia mostrare la propria faccia più moderata, aperta, sincera. Innocente, soprattutto. E proprio di “innocenza” parla al suo popolo, anche se di quella, presunta, di un altro. Ricorda che era stato il ministro di giustizia del suo governo, Tarso Genro, a convincerlo dell’estraneità di Cesare Battisti rispetto ai gravi reati che gli venivano contestati. Sulla base di quelle informazioni, dice oggi, ho concesso l’asilo politico. “Ho sentito una grande frustrazione- spiega- quando ho saputo che aveva confessato”. Ma non dice una parola sul sistema giudiziario italiano, però. Come se la protezione politica, la si dovesse accordare solo alle persone innocenti. La “dottrina Mitterand” in Francia non ha mai disquisito di innocenti e colpevoli, per esempio. E il presidente Lula porta sulla propria pelle qualche ferita che ha molto a che fare con un certo uso della giustizia. Se oggi è un uomo libero e può rilasciare interviste a agire la propria propaganda politica seppur non potendosi candidare, è perché qualcosa è accaduto in Brasile negli ultimi mesi. C’è stata una sentenza della Suprema Corte che ha sancito l’impossibilità di tenere una persona in carcere prima che abbia subito una condanna definitiva, dopo i diversi gradi di giudizio processuale. In Italia, per esempio, questa norma non c’è. In Italia esiste il carcere preventivo, cioè prima del processo, che viene chiamato custodia cautelare, per cui si presume, in modo soggettivo e spesso arbitrario, che una persona indagata, se non ammanettata, possa scappare, inquinare le prove o addirittura ripetere lo stesso reato di cui è accusato. Ma anche il processo –quando arriva, perché i tempi sono lunghissimi, quindi ingiusti-, proprio a partire da quelli celebrati nei confronti di persone come Cesare Battisti, ha qualche grumo di ingiustizia. Prima di tutto perché non dovrebbe mai esser celebrato in assenza dell’imputato, se ancora avesse valore il principio dell’habeas corpus. E poi perché una testimonianza d’accusa, anche quella di un coimputato ( che da noi si chiama “pentito”, come se si trattasse di questioni religiose o di coscienza), dovrebbe essere solo un “apriscatole”, non una prova in sé, come disse un famoso magistrato siciliano di nome Giovanni Falcone. Poi però bisognerebbe cercarle, le prove. Visto che i processi nei confronti di Cesare Battisti sono stati celebrati proprio secondo questi criteri, il presidente Lula ha fatto bene a esaminare con cura i fascicoli processuali e a prendere in considerazione l’ipotesi di dare asilo politico a chi, se estradato, sarebbe stato probabilmente condannato senza prove e a una pena a vita. Avrebbe dovuto mettersi le mani sulle orecchie, per non ascoltare il suo ministro di giustizia e i suoi compagni del Pt, il partito dei lavoratori da lui fondato, che a gran voce gridavano l’innocenza di Cesare Battisti. Ammesso che davvero le cose siano andate così. A volte la memoria inganna. Ma, pur se in quei giorni, quando Lula era il potente e amato presidente del Brasile, lui non avesse avuto modo di approfondire le regole dello Stato di diritto, forse avrebbe potuto farlo in seguito, quando qualche ferita sulla sua stessa pelle gli mostrò la pericolosità dell’uso politico della giustizia. Quando lui stesso ha sofferto la mancanza di regole e la strumentalità di certe accuse.
Ha avuto un grande nemico, prima ancora di Bolsonaro, Inacio Lula da Silva. Un magistrato, Sergio Moro, quello del processo “Lava Jato”, la Mani Pulite brasiliana che ha determinato la condanna di Lula a nove anni e sei mesi di carcere e il capovolgimento politico dell’assetto del Paese, con la nomina dello stesso Moro a ministro di giustizia. Dalla toga ai sigilli, senza soluzione di continuità. Ruolo da cui si dovrà poi lui stesso dimettere in seguito alla divulgazione di sue telefonate intercettate in cui avrebbe indicato ai suoi ex colleghi le persone da condannare nei processi di corruzione. Una sorta di nemesi. Che cosa fa pensare all’ex presidente Lula che in Italia la situazione dell’amministrazione della giustizia sia diversa da quella di cui lui stesso si sente vittima? Cesare Battisti ha ammesso i reati per cui è stato condannato. È in carcere da un anno e mezzo in totale isolamento in un reparto di massima sicurezza come se fosse ancora oggi un terrorista. Come se la pensasse ancora e fosse ancora pronto ad agire come fece quarant’anni fa, quando era ragazzo “rivoluzionario” e sparò. Dopo sei mesi dall’arresto avrebbe dovuto, come prescriveva la sentenza di condanna, essere associato a un regime di maggiore “normalità”, e magari trasferito dalla Sardegna in un luogo più vicino al suo giudice naturale e ai suoi difensori, cioè Milano. Invece è ancora lì, in una sorta di sua piccola Guantanamo personale. Se tutto ciò accadesse in Brasile, in presenza di personaggi come Bolsonaro e Moro, l’Italia avrebbe dato l’estradizione a un Lula latitante, innocente o colpevole che fosse?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.