In una delle ultime udienze della Corte di appello di Napoli alle quali ho partecipato come procuratore generale designato, erano iscritti a ruolo 34 procedimenti penali. Sì, avete letto bene, proprio 34 processi da celebrare. Una enormità, anzi una utopia: si possono celebrare 34 processi in una sola giornata? Evidentemente no. L’udienza, cominciata regolarmente intorno alle ore 9.30, è andata avanti senza interruzioni fino alle 16.30. Sette ore nel corso delle quali il collegio dei giudici si è impegnato soprattutto nell’esercizio della nota pratica del rinvio della udienza.

Sì, perché di quei 34 processi soltanto tre sono giunti al traguardo della decisione. I restanti 31 – tra i quali alcuni relativi a fatti di mafia, stupri, rapine, ricettazioni e spaccio di droga – sono stati rinviati per i motivi più disparati. Le notifiche non sono mai partite oppure nessuno sa se siano giunte a destinazione, il videocollegamento con il detenuto non è stato attivato, i fascicoli non si trovano, sussistono impedimenti vari per imputati e difensori, mancano alcuni atti per la decisione: un campionario davvero avvilente di tutto il peggio che può succedere in un processo, senza contare lo spreco di tempo e di denaro pubblico, gli sguardi smarriti, le attese infinite di parti e testimoni.
Mentre accadeva tutto ciò, mi chiedevo: ma il giudice non deve controllare le notifiche? Non deve assicurare il buon andamento dell’udienza? Perché tutta questa minima e semplice attività preparatoria non viene svolta? O forse essi ritengono che soltanto l’attività giudicante rientri nelle loro competenze e considerano altre essenziali incombenze come una sorta di deminutio della loro funzione?

Alla fine, di 34 processi ne sono stati decisi tre di cui due per intervenuta prescrizione. Con buona pace delle lamentazioni per il troppo lavoro dei giudici e per chi ha il dovere di controllare la loro produttività. Questo è lo stato della giustizia nel distretto di Napoli, la cui Corte di appello ha il triste primato del numero di processi pendenti (oltre 57mila) e della durata del giudizio (circa 1.560 giorni, oltre tre anni e mezzo). Di fronte a questo sfascio e al sostanziale fallimento di una idea di giustizia, la riforma promossa dalla guardasigilli Marta Cartabia ha quanto meno il merito di aver posto il problema dei tempi del processo e del rispetto del principio costituzionale della sua ragionevole durata, anche di fronte agli impegni presi dall’Italia in sede europea per l’ottenimento dei fondi necessari per contrastare i nefasti effetti dell’emergenza pandemica in atto.

Il problema della durata dei processi non si risolve certo allungando i tempi della prescrizione, che anzi lo aggrava; d’altra parte molti dimenticano che, quando venne introdotta la riforma voluta dal primo governo Conte, fu lo stesso ministro Alfonso Bonafede ad assicurare che quell’intervento di rivisitazione della prescrizione sarebbe stato accompagnato da altre misure volte a velocizzare il processo, in modo che questo si concludesse in tempi certi e ragionevoli. Ovviamente, nulla di tutto questo è stato fatto. Dunque oggi, di fronte a un intervento riformatore di ampio respiro, nel quale si prevede lo stanziamento delle tanto sospirate risorse, davvero non si comprendono le proterve esternazioni di alcuni pm e perfino di appartenenti all’organo di autogoverno della magistratura che, ignoranti del principio della divisione dei poteri, pretendono di sostituirsi al legislatore, chiedendo per esempio che il Governo non ponga la fiducia sul disegno di legge presentato alle Camere ovvero vaticinando la perenzione della metà dei processi. Ebbene, che finiscano questi processi se non si è in grado di celebrarli in tempi rapidi, senza pregiudizi per i diritti delle persone offese, come è previsto dalla riforma.

Ma è possibile che un singolo magistrato, seppure presidente di un’associazione di categoria come l’Anm, si arroghi il diritto di affermare che è inopportuno il referendum sulla giustizia promosso da partiti, cittadini e regioni perché è in atto un iter parlamentare di riforma e che lo stesso iter parlamentare venga criticato nei suoi modi e tempi da un altro magistrato appartenente al Csm, tra l’altro iscritti entrambi alla stessa corrente? I magistrati non dovrebbero, per obbligo costituzionale, applicare la legge la cui formazione spetta ad altri poteri dello stato? Povero Montesquieu. (raffaele marino)