“Gli anni da cui veniamo, per quanto riguarda le scelte europee sull’industria, sono stati molto difficili. Un’Europa tutta concentrata sulla finanza, sulla disciplina fiscale, sul cambiamento climatico è sembrata non avere alcuna attenzione né passione per l’industria manifatturiera e in particolare per quella di base. Un’impostazione per così dire nordica, di Paesi ormai senza industria, in particolare Olanda e Danimarca, che importano tutto, che per questo declinano spesso un mercatismo estremista e che sono ideologicamente votati a politiche di transizione energetica estreme. C’è, latente, un deficit di cultura industriale o addirittura un pregiudizio anti- industriale che causano incoscienza o insofferenza rispetto al rischio di scenari di deindustrializzazione in Europa; scenari che invece si stanno realizzando per l’insipienza delle politiche comunitarie nell’indifferenza generale”.

Questo passaggio della mia relazione all’Assemblea annuale di Federacciai, tenutasi a Milano il 10 maggio scorso, è stato criticato da più parti come eccessivamente severo nei confronti dell’Europa e delle sue tendenze “nordiche” e di un ambientalismo ideologico, estremista, trasformato in religione neo-pagana del nostro tempo che demonizza il progresso economico, sottovaluta la tecnologia e predice un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente. Taluni, che non mi conoscono, sono arrivati ad accusarmi di una visione “sovranista” e di una censura astratta a posizioni che in Europa non esisterebbero. Le critiche vanno sempre considerate con attenzione e umiltà ma in questo caso ho ragione io: i miei quindici anni di attività industriali in Belgio, vicino a Bruxelles, alla Commissione Europea e alla sua burocrazia guardiana (alla quale purtroppo gli italiani partecipano poco e male) mi hanno dato una sensibilità e un fiuto per ciò che bolle in pentola a Berlaymont che raramente mi fanno sbagliare.

Se si vuole una prova di ciò che vado sostenendo basta leggere la lunga intervista realizzata da ‘L’Echo’, il giornale economico belga, a Pierre Régibeau in occasione del suo pensionamento. Chi è Pierre Régibeau? Un belga di Liegi, ex braccio destro della VicePresidente e Commissaria europea alla concorrenza la danese Margrethe Vestager. Come capo economista della Direzione Concorrenza (la famosa DG4) Régibeau, sconosciuto ai più, è stato uno degli architetti della politica economica e industriale europea degli ultimi anni.

I contenuti dell’intervista, nella loro radicalità mercatista, ecologista e antindustriale sono emblematici dell’atteggiamento che ho denunciato nella mia relazione, un atteggiamento nel quale un liberismo estremo (mercatista appunto) si intreccia ad un ecologismo acritico e a una visione tutta finanziaria e antindustriale o a-industriale dell’economia. Vediamo i passi salienti dell’intervista.
Al giornalista che gli fa notare le enormi preoccupazioni dell’industria dell’acciaio, della chimica e in generale di tutta l’industria manifatturiera di base che non è negazionista, che lavora per la decarbonizzazione di suoi processi ma contesta l’approccio estremista della Commissione e del Parlamento Europeo e che denuncia una progressiva deindustrializzazione del continente foriera di impoverimento collettivo, Régibeau risponde: “Salvo ragioni di sicurezza [che non spiega, n.d.a.] non c’è alcuna valida ragione per voler mantenere alcune attività economiche in Europa. Riguardo alle preoccupazioni degli industriali, si tratta di allarmismi di gruppi privati che perseguono esclusivamente i loro propri interessi”.

Alla domanda del giornalista sul pericolo che l’industria di base europea sparisca davvero la risposta agghiacciante è la seguente: “Se questo tipo di industrie spariscono va bene così perché ciò significa che deve accadere. A che fine produrre in Europa dell’acciaio se noi possiamo comprarlo tre volte meno caro in Indonesia?” e ancora: “Perché fabbricare torri eoliche in Europa quando le si possono comprare due volte meno care altrove? L’Europa dovrebbe ringraziare questi paesi per il regalo.”
Le due affermazioni sui prezzi extraUE dell’acciaio e delle torri eoliche sono clamorosamente false: i prezzi dei due beni sono prezzi internazionali, inoltre si tratta di beni che pesano e che cubano e che quindi sono molto costosi da trasportare; senza contare il tema della dipendenza strategica citato da Regibeau solo pro-forma.

E all’ulteriore domanda se non ci sia il rischio di sopprimere decine di migliaia di posti di lavoro e di importare inquinamento e milioni di tonnellate di CO2 emesse da produzioni molto meno controllate delle nostre, la risposta rilancia la cervellotica misura del così detto CIBAM (Carbon Border Adjustement Mechanism): “Possiamo risolvere questo problema prelevando diritti di dogana sulle importazioni dai Paesi che non rispettano le regole ambientali, imponendo noi delle regole ecologiche al resto del mondo.” La solita, drammatica, presunzione di poter imporre come europei, in forza di chissà quale primato o centralità, le nostre regole al resto del mondo. L’Europa non è più il centro del mondo ma, purtroppo, un continente demograficamente e economicamente in declino.

In famiglia, da noi, si dice che l’arroganza è sempre un peccato ma che nel business è un peccato mortale. Purtroppo questo adagio pare essere ignorato a Bruxelles e dintorni dove si decide il futuro dell’Europa. Rileggendo questa intervista, due insegnamenti bisogna trarre: – Il primo è che il sistema industriale nel suo complesso non è stato capace di fare sentire sufficientemente la sua voce. E ciò non deve più succedere, tanto più che i prossimi anni saranno decisivi per le sorti della manifattura europea impegnata nella colossale sfida della decarbonizzazione; – Il secondo è che bisogna mandare a Bruxelles i migliori. L’Italia deve presidiare con forza le Direzioni e deve pretendere un cambio di indirizzo europeo sulle politiche industriali. Questo oggi significa costituire un grande fondo europeo per la transizione industriale e per la decarbonizzazione dell’industria di base.

Antonio Gozzi (presidente Federacciai)

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