Il tenente Colombo. Keyser Söze per gli appassionati di cinema. ‘O mucio sordo, come dicono a Napoli di una persona sorniona, che accentua il proprio profilo apparentemente svagato per non dare troppo nell’occhio. È la fotografia di Gaetano Manfredi che ha da poco tagliato il traguardo di metà mandato da sindaco di Napoli. Da piccolo è caduto nella pozione del low profile. Solo persone molto disattente possono ancora considerarlo un uomo che non conosca direzione e obiettivi della propria traiettoria politica e personale. È un politico italiano molto sottovalutato. L’altro giorno, alla Repubblica delle idee, quando gli hanno chiesto delle frizioni con Vincenzo De Luca, ha risposto così: «Ho sempre cercato di litigare poco nella mia vita, trovare un nemico per essere sempre sulla scena non serve a niente: ma ad alimentare una vanità personale o una idea di politica fatta da persone che vogliono stare sole». Una dichiarazione che è un manifesto.

Manfredi non è uno qualunque. Ha una lunga carriera accademica alle spalle. È stato professore di tecnica delle costruzioni all’Università Federico II di cui poi è diventato rettore nel 2014. Poi due volte presidente della Conferenza dei rettori. Nel 2019 ministro dell’Università e della ricerca scientifica nel secondo governo Conte. E da lì è stato poi catapultato a Napoli dove nell’ottobre 2021 ha stravinto le elezioni comunali al primo turno col 62,9%. Lo sfidante, Catello Maresca, esponente del centrodestra, si è fermato al 21,9. Un abisso. Per capire come si muove il sindaco apparentemente grigio, basta vedere quali e quante liste lo hanno appoggiato nella corsa elettorale. Tredici. Altro che campo largo. Campo larghissimo. E in tempi non sospetti. Tredici liste con dentro Pd, Cinque Stelle, personaggi legati anche al centrodestra. La lista con più voti è stata quella del Pd col 12,2%: più o meno un quinto del totale. Una balcanizzazione del voto che ha impedito qualsiasi egemonia. Anche Vincenzo De Luca, che pure lo volle fortemente, si è ben presto reso conto di aver sbagliato i propri calcoli quando immaginava di poter guidare e condizionare Manfredi. Oggi, due anni e mezzo dopo, ha capito e non nutre più illusioni. Tra Comune e Regione i rapporti sono tra il freddo e il freddino.

Manfredi sa il fatto suo. Non potrebbe essere altrimenti per il figlio di Gianfranco, socialista, consigliere comunale che attraversò indenne gli anni a dir poco turbolenti di Galasso e Alfieri pur ricoprendo incarichi di vertice all’ufficio tecnico di Nola. Pensa con anni d’anticipo al suo futuro. E l’indirizzo alla sua amministrazione lo ha dato ancor prima di candidarsi. Andando a trattare con Roma (allora c’era il governo Draghi) i fondi da destinare a Napoli. Il bilancio della città faceva acqua da tutte le parti, il rosso era da commissariamento. Lui andò a mettere le cose in chiaro e a porre le condizioni per la sua candidatura. Ossia: servono soldi. E li ha ottenuti. Ha segnato una discontinuità col decennio di de Magistris che aveva invece cavalcato e incarnato il crescente desiderio di isolamento che contraddistingue Napoli da almeno due decenni: il sentirsi napoletani e non italiani. Giggino (con due g) dichiarò Napoli città derenzizzata quando Matteo era presidente del Consiglio e uno degli uomini politici più influenti. Politica gridata che ottenne il solo risultato di ritrovarsi con le casse vuote. Manfredi ha voluto chiarire da subito che la sua linea sarebbe stata l’esatto opposto: dialogo con Roma innanzitutto, a prescindere dal colore politico del governo. Come dimostrano gli ottimi rapporti con l’attuale esecutivo, con i ministri Fitto e Sangiuliano e non solo.

Mentre gli altri sono concentrati e impelagati nel presente, Manfredi – come i bravi scacchisti – è già venti mosse avanti. Sia a livello collegiale, come agenda dell’amministrazione. Sia a livello individuale, per ambizioni personali. Oggi, 2024, lui sta già prefigurando e lavorando per gli scenari del 2026. Vive a Napoli, lavora a Napoli, eppure ragiona sempre a livello nazionale. Pensa e si muove come se vivesse a Roma. Il suo primo obiettivo è diventare presidente dell’Anci l’associazione dei comuni italiani. Per continuare ad avere una ribalta nazionale. Per diventare una risorsa del centrosinistra che – attenzione – nel corso degli anni non si è fatto nemici nel centrodestra. Anzi. È un instancabile tessitore di trame. Che non ha cedimenti egotici. Nell’epoca dell’apparire, è un pregio di non poco conto. Non è uomo dell’apparire. È uomo di mediazione. Sa bene che il miglior modo per gestire le trattative è provare, per quanto possibile, ad accontentare il maggior numero possibile di persone. Uno dei suoi motti è “amma appara’ a tutte quante”, ossia dobbiamo dare qualcosa a ciascuno. Ha il passo lungo della Prima Repubblica. È uomo di gestione del potere. Sa farlo con sapienza. E – dettaglio tutt’altro che irrilevante – sa controllare le proprie centrali (o feudi) di potere. Come ad esempio l’università Federico II dove ha teleguidato l’elezione a rettore di Matteo Lorito che era direttore del dipartimento di Agraria. L’università è serbatoio principale del suo cerchio magico.

È un sindaco più romano che napoletano. Non ha segnato il suo mandato con un luogo della città, come avvenuto con la pedonalizzazione di piazza Plebiscito con Bassolino e il Lungomare liberato (chiuso alle auto) di de Magistris. Questa mancanza, se così possiamo chiamarla, è un’altra evidenza del rapporto meno viscerale con Napoli. Ha aggirato il “problema” della juventinità facendosi veltroniano. Si fece fotografare con la maglia del Napoli di Maradona. Inizialmente ha anche provato a intraprendere un’opera di de-folclorizzazione della città. In una bozza del regolamento comunale comparve il divieto di stendere i panni ai balconi. Fu travolto dalle critiche e fece dietrofront. È stata una delle rarissime occasioni in cui ha fatto notizia. Ha ovviamente assecondato la voglia di turismo che da tempo travolge Napoli, con le tradizionali polemiche sulla gentrification e la friggitorizzazione della città. Sono emergenze comuni a tanti centri dell’Europa.

Qualcuno lo accusa di essere poco appariscente e di avere una comunicazione non all’altezza del ruolo. Non è tanto vero. Un po’ perché, come detto, il basso profilo è una scelta. Ma anche perché Manfredi ha influenza sui media. Si è visto in occasione del patteggiamento che ha siglato alla Corte dei Conti per incarichi professionali ricevuti quando era docente e rettore dell’università di Napoli e portati avanti senza l’autorizzazione dell’ateneo. Grazie al patteggiamento ha chiuso con un risarcimento di 200mila euro; in teoria gli sarebbe potuto costare anche 700mila euro. I giornali napoletani quasi non hanno battuto ciglio. Come se non fosse mai accaduto. Per la rabbia dell’ex sindaco de Magistris che ha potuto gridare giusto sui suoi canali social. L’unico scivolone avvenne alla festa scudetto, allo stadio. Quando, incautamente, probabilmente fidandosi di un consiglio sbagliato, salì sul palco a ritirare un premio nella speranza di incassare un’ovazione. Ricevette – in quanto istituzione – una bordata di fischi. Lezione che lo ha definitivamente convinto a mettere da parte ambizioni narcisistiche.