Quante volte in Italia ci riempiamo la bocca (espressione non casuale) dell’importanza intoccabile della cucina italiana e delle sue tradizioni? Quotidianamente. Ma quanto, in realtà, percepiamo il cibo e le sue politiche come asset fondamentali della nostra civiltà, della nostra economia, della nostra salute? Quanto siamo consapevoli che la tradizione gastronomica italiana nasce dalla lunga contaminazione culturale che il nostro Paese ha vissuto per secoli? Ci rendiamo conto di quanto una corretta politica del cibo possa fare una differenza nel nostro Paese e di conseguenza a livello internazionale? Per rispondere a queste domande analizziamo il contesto attuale.
Stiamo vivendo una tempesta perfetta: il combinato degli effetti generati da pandemia, conflitti e l’impatto del cambiamento climatico sulle produzioni agricole alimentari, da quelle montane a quelle marine e costiere, ha generato una situazione che a livello mondiale vede tornare a crescere, dopo anni, il numero di persone che soffrono la fame. Quasi un miliardo di persone non ha regolare accesso al cibo in un pianeta che spreca un terzo di ciò che produce.

La pandemia è alle spalle ma l’invasione della Russia in Ucraina, la ripresa del conflitto israelo-palestinese e soprattutto il cambiamento climatico in fase di evidente accelerazione rischiano di mettere in ginocchio la risorsa fondamentale per ogni essere umano: il cibo. Che a qualunque latitudine e per qualunque estrazione sociale e culturale, significa vita. Nel nostro Paese più che in altri, anche grazie alla dieta mediterranea, patrimonio immateriale Unesco, e grazie al valore culturale identitario del “convivio”, occasione di costruzione di relazioni umane senza confini. Un linguaggio universale, che può e deve essere aperto e inclusivo. Scongiurando l’abitudine a mettere al centro l’individuo, bisogna incentivare le relazioni, le azioni collettive, le comunità. Comunità che spesso trovano, nel faticoso lavoro dei campi, una forma di difesa e identità. In un’Italia a molte velocità, infatti, malgrado subiscano l’inadeguatezza delle infrastrutture fisiche, sociali e digitali, gli agricoltori delle aree interne sono esempio di resistenza e presidio dei loro territori, spesso gli unici a creare lavoro, contrastare il dissesto idrogeologico, frenare lo spopolamento.

È auspicabile una rigenerazione valoriale che ridia centralità e importanza a fattori che la nostra società ha, in questi ultimi 30 anni, con scarsa lungimiranza, svilito. “La terra è bassa” recita un noto proverbio per sottolineare la fatica richiesta dal lavoro agricolo e contadino. Eppure le persone, per secoli, non si sono mai fatte spaventare da questa fatica. Oggi però siamo in una situazione insostenibile: l’emergenza climatica è causa di carenza di produzione, intere aree del Sud del mondo stanno diventando inospitali agli esseri umani per via della desertificazione. Un utilizzo scellerato della risorsa idrica la sta rapidamente rendendola indisponibile, se non per mezzo di impianti costosi di desalinizzazione e purificazione.
Prepotentemente tutte le crisi globali si intrecciano con la filiera agroalimentare, responsabile del 37% delle emissioni di Co2 a fronte del 17% rappresentato dai trasporti su cui spesso ci concentriamo. È proprio risolvendo il paradosso di un sistema alimentare che spreca e affama, che si può affrontare la “tempesta perfetta” di cui sopra. In questo senso la sovranità alimentare – quella vera, non propagandistica – potrebbe essere un’utile alleata.
C’è chi ha fatto facile ironia sulla scelta simbolica di intitolare con questo nome il nuovo ministero dell’agricoltura, perché abbiamo ben chiaro il potente significato dell’espressione e il contesto che l’ha originata durante il World Food Summit del 1996 e siamo in grado di riconoscere strumentalizzazioni e deviazioni dal significato originale: perché la sovranità alimentare mette al centro il diritto dei popoli a un cibo adeguato, dal punto di vista nutrizionale, ambientale, culturale, identitario. Parte dall’idea della tutela della “Pachamama” (la Madre Terra) e indica il bene comune come criterio primario per le politiche del cibo piuttosto che interessi privati e specifici. Sovranità alimentare tutto può significare, quindi, tranne che il sacrificio della sostenibilità ambientale sull’altare della produzione intensiva per fronteggiare la crisi, ma anzi dovrebbe legarsi alla cura della nostra terra, della nostra aria, delle nostre acque e, di conseguenza, del nostro cibo. In sintesi, del nostro Pianeta. Come, tra l’altro, ci chiedono da qualche anno, spesso inascoltati, milioni di giovani di tutto il mondo con le loro manifestazioni in sua difesa.

In questa cornice, va riconosciuta come strategica la ristorazione collettiva in quanto strumento educativo, affettivo, culturale, curativo, e come volano per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile. Occasione unica per educare a sapori nuovi e alla complessità del cibo. Ma le mense sono anche uno strumento fondamentale per lotta alle disuguaglianze se è vero che in una città come Roma su 110 mila bambine e bambini che usufruiscono di questo servizio il 12% sono in condizione di povertà e oltre 6.000 di loro consumano l’unico pasto proteico a mensa. Le mense hanno aumentato il tempo della scuola e della formazione costruendo comunità e facendo superare il concetto di insegnamento per approdare a quello di educazione. Perché a scuola si mangia insieme, la stessa cosa, e lo si fa con un adulto. Se alle mense scolastiche aggiungiamo quelle dei nostri ospedali, delle RSA, delle carceri, entra in campo anche il tema della salute e della cura dei più fragili.
I nostri agricoltori sono il primo presidio per la tutela del territorio e della bellezza, e la transizione agro-ecologica non può fare a meno dell’agricoltura. Serve un’analisi onesta e trasparente, serve il coraggio di modificare il paradigma riduzionista dello sviluppo infinito. Una soluzione di più ampio respiro, che metta in discussione le abitudini di consumo, invece di cercare la risposta soltanto nella tecnologia, nei brevetti industriali e nei laboratori. La transizione agro-ecologica, in una giusta politica del cibo, necessita di istituzioni presenti, lungimiranti e determinate a perseguire il bene comune. Dobbiamo costruire attraverso politiche adeguate una rinnovata consapevolezza e sensibilità dei cittadini, per porre le condizioni affinché si passi dall’essere “consumatori” a costruttori di senso, approcciando anche il cibo in una prospettiva nuova, che restituisca il corretto valore anche economico alle donne e agli uomini che col loro lavoro garantiscono niente più che la nostra sopravvivenza. Riconoscere il grande prezioso lavoro di chi fornisce cibo sarebbe il primo passo verso un futuro diverso, migliore, possibile e necessario. Un futuro che non lasci indietro nessuno.

Marco Morello

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