All’eroe, al martire, preferisco l’uomo. L’uomo di faccia a una scelta, l’uomo di fronte al destino di uomo. L’uomo che corre dove cova l’incendio per non abbandonare alla sorte i diseredati della sua terra, la provincia più povera d’Italia, la provincia dove il bracciante viene chiamato ‘instrumento vile’, meglio la vacca. L’uomo che, quasi alla cieca, combatte per la sua verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e, da lì, si sposta in ogni regione d’Italia per mettere in guardia dallo squadrismo agrario che ha ormai i connotati di squadra fascista.

Nel gennaio del 1921, dopo la prima interrogazione su omicidi e bastonature presentata a Montecitorio, viene rapito, seviziato e bandito da una squadraccia. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. L’uomo che crede profondamente in un’idea, a tal punto da mettere a rischio la vita. L’uomo che ama un’unica donna fin dal primo incontro all’Abetone, in Toscana, e affida alle lettere sentimenti e passioni perché da anni è un bastardo, un esule inseguito, braccato. L’uomo che abbraccia la vita proprio andando incontro alla morte perché se no non è vita, è rinuncia. L’uomo che lotta contro il ‘mussolinismo’ prima ancora che contro il fascismo, che capisce che Il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola e media borghesia privandola di risparmi e soprattutto del ruolo sociale che aveva prima della Grande Guerra.

L’antibolscevico che non crede nell’illusione della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia del Parlamento e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. L’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e a sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che nel pantheon della sinistra comunista non ha mai trovato diritto di cittadinanza.

Quando il cadavere di Giacomo viene scoperto, l’attacco più duro verrà proprio da Antonio Gramsci. Scriverà: “È morto il pellegrino del nulla” che nella vita politica ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, anzi: un socialfascista, l’epiteto usato contro Turati, contro Treves, contro Matteotti, contro i dirigenti riformisti della Cgl, a partire da Buozzi, dai vertici comunisti italiani. Giorni dopo, il comitato centrale del Pcd’I approva all’unanimità un documento che si conclude con una frase di fuoco: i nemici del proletariato sono Mussolini, Sturzo, Turati e Amendola. Tutti incredibilmente allo stesso livello. Perché? Perché i comunisti ritenevano, confidando nella linearità della storia e nella veridicità del marxismo, che il capitalismo fosse in crisi e dietro l’angolo vi fosse la rivoluzione imminente il cui sbocco finale era lo stato comunista. Dunque, chi immaginava accordi parlamentari allo scopo di defenestrare Il Duce altro non era che un traditore della classe operaia. I fatti smentiranno quell’analisi e obbligheranno Gramsci, dal carcere, a fare autocritica.

Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile opposizione politica al Duce e al fascismo e perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per avere raccolto le prove di una tangente di 30 milioni pagata dalla Sinclair Oil ad alti membri delle istituzioni oltre che ad Arnaldo, il fratello del capo. Ne avrebbe parlato alla Camera l’11 giugno 1924. Venne rapito e ucciso il giorno prima.
Un uomo solo, non un eroe lontano dal tempo. Un eretico, una voce fuori dal coro. Sarà per questo che non fu tanto amato, sarà per questo che lo ricordiamo.

Riccardo Nencini

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