Chi le visita regolarmente le definisce «gabbie senza diritti». Prigioni di cemento in cui i reclusi hanno meno garanzie di chi è in carcere. «Un inferno antidemocratico», secondo il segretario di +Europa Riccardo Magi. I centri di permanenza per i rimpatri sono tornati al centro dell’attenzione, ancora una volta. Il governo ha esteso i tempi di trattenimento dei migranti fino a diciotto mesi: una decisione rivendicata dalla premier Giorgia Meloni nelle ore dell’emergenza sbarchi a Lampedusa.

Oggi i Cpr attivi sono nove. Il nuovo piano ne prevede uno in ogni regione, da realizzare al più presto. Possibilmente in zone «scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili». L’esecutivo vuole incrementare quanto prima i posti a disposizione, che oggi sono circa seicento per poi procedere con le espulsioni degli irregolari. Almeno in teoria. Il provvedimento infatti rischia di scontrarsi con la realtà. Aumentare i tempi di permanenza nei centri non fa decollare i rimpatri, prolunga solo le sofferenze di chi è recluso in attesa di un’espulsione spesso impossibile. I numeri sono impietosi e smentiscono qualunque promessa securitaria. Tra il 2011 e il 2013, anni in cui il termine massimo di trattenimento era già di diciotto mesi, è stato rimpatriato solo il 50 per cento di chi entrava nei Cpr.

I dati forniti dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale non lasciano dubbi. E la situazione si ripete identica oggi. Dal primo gennaio al 31 agosto del 2023 sono state 4.459 persone le persone trattenute nei Cpr. Di queste solo 2.101 sono poi state accompagnate fuori dall’Italia, appena il 47,1 per cento. Nel 2022 la musica non cambiava: su 6.383 persone entrate nei centri, ne sono state espulse solo 3.154: il 49,4 per cento. Solo uno su due viene fatto salire su un aereo. Gli altri, una volta usciti dai cancelli del Cpr, tornano in strada con un foglio di via e un carico di marginalità ancora più pesante, dopo mesi trascorsi dietro le sbarre. Non c’è decreto che possa risolvere la situazione. Per aumentare i rimpatri servono gli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza, notoriamente difficili da stipulare. Oggi l’Italia ha intese con poche nazioni come Marocco, Tunisia, Egitto, Ghana.

Rinchiudere chi non ha titolo per restare qui rischia di tradursi in una perdita di tempo e soldi, oltre a comportare una discutibile privazione della libertà. La detenzione dei migranti irregolari è un affare per i privati che gestiscono i Cpr. Come ha ricostruito Cild, Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, tra il 2021 e il 2023 lo Stato ha bandito gare d’appalto per un costo complessivo di 56 milioni di euro. E nell’ultima manovra sono stati stanziati altri 42,5 milioni. Un business a cui non corrispondono risultati entusiasmanti.

Non si contano le denunce per maltrattamenti e abusi in luoghi che, come spiega il Garante Mauro Palma, offrono «poca trasparenza all’esterno» e sono sprovvisti di una tutela giurisdizionale del migrante durante la sua permanenza nel centro. Qui, per intenderci, non c’è nessun magistrato di sorveglianza che possa vigilare come succede nelle carceri. «Nei Cpr le persone trascorrono un tempo vuoto, dentro un fallimento», senza la possibilità di svolgere alcun tipo di attività. In compenso, come ha documentato un’indagine di Altreconomia, capita che si somministrino psicofarmaci per “tenere buoni” gli ospiti. Dal Rivotril al Tavor, «c’è un uso di medicinali arbitrario eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico», denuncia la rivista.

Se non bastasse, negli stessi ambienti è recluso chi si è visto respingere la richiesta di asilo e chi attende di essere espulso dopo sentenze penali. Una convivenza difficile. Che negli anni ha portato tensioni, rivolte, suicidi. Rinchiudere sempre più migranti nei Cpr rischia di essere non solo inutile ma pericoloso, mentre gli aerei per i rimpatri restano a terra e la campagna elettorale prosegue con le promesse di sempre.

Marco Fattorini

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