Noi robot
Educare o limitare i giovani?
Minorenni bannati dai social, i dubbi sull’efficacia del divieto: bisogna proteggere dall’interno, non censurare
La legge australiana vuole impedire ai minori l’accesso alle piattaforme online, che hanno anche l’onere del controllo. Come? Non è chiaro
Domenica mattina presto, periferia del quadrante Sud-Est della capitale: l’imponente acquedotto romano si staglia all’orizzonte mentre frotte di genitori sconvolti dal sonno ma granitici nella volontà, accompagnano figli adolescenti scout per una inedita giornata di esplorazione tra lupetti e coccinelle, con temperature vicine allo zero.
Non si possono non osservare con ammirazione queste famigliole che praticano un “geniale sistema di autoeducazione”, come si definisce lo scoutismo, che viene dritto dritto dall’Inghilterra del 1908, per iniziativa del generale Baden-Powell, con il fine, si legge sulla Treccani, “di formare il carattere del ragazzo in vista della formazione del cittadino”. Come? Prendendo il “ragazzo quale esso è, non quale un adulto dotato di scarsa fantasia o di poca memoria lo vorrebbe, e porlo in contatto con la natura”. Autoeducazione è la parola chiave, dunque. In particolare, gli epigoni del caro vecchio generale, molti anni dopo il suo imprinting, ebbero a scrivere: “Il ragazzo cerca costantemente di attuare la propria evasione dal mondo degli adulti (famiglia e scuola) contrassegnato da obblighi e divieti, e si rifugia nella sua solitudine amara e nei suoi sogni fantasiosi o si darà in braccio a compagnie poco adatte. Lo scoutismo intende riempire tali vuoti offrendo al ragazzo il potere di realizzare i suoi sogni o le avventure nelle quali è comunemente trattato da bambino”.
La breve riflessione sullo scoutismo offre l’opportunità di ricordare agli adulti che no, il senso di “vuoto” nei ragazzi non è prerogativa della contemporaneità tecnologica come – troppo sbrigativamente e con una certa pigrizia intellettuale – spesso viene visto, per quanto le “compagnie poco adatte” potrebbero essere, oggi, proprio quei social che tanto (e giustamente) preoccupano il mondo degli adulti. E preoccupano a tal punto da aver cementato un fronte piuttosto globale e trasversale – docenti, genitori, istituzioni – nel dire no all’accesso alle diverse piattaforme prima di una certa età.
Quale? L’Australia l’ha individuata nei 16 anni e ha presentato un disegno di legge, passato al Senato, per vietarne l’accesso ai ragazzi al di sotto di questa soglia: è il primo Paese a suggerire una legge che pone l’onere sulle piattaforme dei social media, non sui genitori, di impedire ai bambini l’accesso ai loro servizi, minacciando sanzioni fino a 32,5 milioni di dollari. Alle piattaforme toccherà dimostrare, dunque, di aver adottato “misure ragionevoli” per impedire alle persone di età inferiore ai 16 anni di registrarsi. Come? Non si sa ancora. E su quest’incertezza, di più, su questo mistero, si fonda gran parte delle perplessità di chi, nonostante le ragionevoli preoccupazioni sull’utilizzo dei social, resta critico rispetto alla cultura del divieto. Fallimentare in ogni ambito.
Poche informazioni filtrano a riguardo. Il solitamente ben informato Financial Times, per esempio, ha spiegato, in un pezzo di pochi giorni fa, che “il governo australiano sta sperimentando tecnologie di verifica dell’età, tra cui dati biometrici, per determinare il modo migliore per far rispettare il divieto sui social media ai minori”. Dunque, il divieto arriverà (probabilmente entro fine anno) ma non si sa ancora come sarà implementato, ragione per cui nessuna legislazione di nessun Paese ne ha mai imposto uno simile. Tanto più che è lo stesso disegno di legge a riconoscere che è impossibile impedire completamente ai bambini di accedere alle piattaforme dei social media. “Sappiamo che alcuni ragazzi troveranno delle soluzioni alternative, ma stiamo inviando un messaggio alle aziende dei social media affinché si ripuliscano”, ha affermato il premier laburista Anthony Albanese. L’efficacia di questo divieto, in buona sintesi, resta assai dubbia…
Lo scrive proprio in queste ore, l’Australian Research Council (ARC) Centre of Excellence for the Digital Child che ha presentato un documento sottoscritto da circa 200 esperti: “Il disegno di legge proposto non è la soluzione che il governo o i genitori stanno cercando per affrontare le loro preoccupazioni sulle esperienze online di bambini e giovani. Dobbiamo allontanarci da un modello ‘di deficit’ quando consideriamo l’attività dei bambini nel mondo digitale”. L’attenzione, dunque, secondo gli esperti di ARC, dovrebbe “spostarsi dalla protezione dei bambini dall’ambiente digitale alla protezione al suo interno”.
Internet non è stato creato pensando ai bambini, ma i bambini hanno comunque il diritto di essere online. Il nostro obiettivo come società non dovrebbe essere quello di escludere i ragazzi dai social media, piuttosto, dovrebbe essere quello di creare e facilitare esperienze appropriate per la loro età anche sui social, anche tramite sanzioni reali, non finte, da comminare alle piattaforme per la violazione dei contenuti ammessi. Perché adulti di buona volontà accettano di accompagnare i propri figli a un campo scout, ma dovrebbero convincersi che un divieto basti alla tutela della loro salute mentale?
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