Il gran parlare che si sta facendo sulle novità introdotte di recente al Codice della strada racconta molto del nostro paese. Sembra infatti che qui da noi la soluzione ideale a un problema sia sempre e comunque una bella bacchettata sulle mani. Un divieto. Un no.
Non succede solo oggi, per carità: questa nuvola fantozziana che ci condanna al naufragio delle nuove iniziative la conosciamo già da tempo. È la stessa, non a caso, che ha scatenato saette quando Uber, la società di trasporti tanto odiata dai tassisti, provava a diffondersi nelle nostre città. Anche allora siamo stati capaci di mostrare il nostro abito tradizionale: una armatura di gesso che ci ha tenuto immobili e ingabbiati. Risultato: un servizio a metà, mutilato delle sue utilità principali.

Lo sharing dei monopattini

Qualcosa di molto simile sta ora accadendo a proposito dello sharing dei monopattini. Forse non amatissimi da tutti, anche pericolosi se non adoperati con raziocinio, ma di certo strumenti utili a favorire la mobilità nelle grandi città, dove spesso il servizio pubblico lamenta gravi carenze. Sta di fatto che le norme annunciate hanno messo in grande allarme le società che gestiscono questi servizi, sia per l’introduzione dell’obbligo del casco protettivo che per quello di targare e assicurare questi veicoli.

Condizioni, queste ultime, della cui opportunità si può ovviamente discutere senza cieche preclusioni ma che le società di sharing avvertono come fumo negli occhi, al punto che potrebbero considerare di lasciare il nostro Paese, scegliendo di investire altrove, alla ricerca di contesti e regolamenti più accoglienti.

La sopravvivenza del servizio non considerata

È chiaro che l’aspetto della sicurezza non può e non deve essere mai ignorato. E questo vale tanto per l’ipotesi dell’obbligo del casco quanto per la necessità di dotare i monopattini di contrassegni identificativi e di un’assicurazione. Tuttavia, qualsiasi decisione dev’essere compatibile con la sopravvivenza di un servizio che oggi in Italia non solo soddisfa le esigenze di mobilità di migliaia di utenti, tra turisti e cittadini che lo adoperano regolarmente, ma che anche dà lavoro a un numero significativo di addetti.

Perdere la possibilità di accedere a questo servizio nelle nostre città sarebbe l’ennesimo smacco, frutto di una decisione che sembra sia stata presa senza la necessaria concertazione con gli operatori del settore, ed eludendo la ricerca di una soluzione non semplicemente più morbida ma anche più ragionata ed efficace. Vietare, bloccare e bacchettare non è una soluzione. Specie se questo approccio diventa tipico, quasi rappresentativo del modo in cui qualsiasi nuovo fenomeno viene gestito nella Repubblica dei no. Si fa presto, del resto, a prendere l’abitudine del divieto e della rinuncia, perché quel metodo è il più semplice e sbrigativo.

Le altre opportunità mancate

E poco giovano i princìpi che vengono di volta in volta evocati a sostegno delle decisioni, siano essi pratici o, peggio ancora, etici, come solo poche settimane fa è capitato a proposito della gestazione per altri. Per non dire di altri casi incomprensibili: penso, ad esempio, a quando abbiamo irresponsabilmente rinunciato alla grande opportunità delle Olimpiadi a Roma. I problemi, al di là del loro impatto, sono spesso più complessi di quanto sembri. E liquidarli con disposizioni sommarie non li elimina: anzi li trasforma in altri sempre più grandi, che si ammassano nel serbatoio senza fondo delle opportunità mancate e dell’arretratezza. Ecco, arretratezza: una parola che dovrebbe farci tremare i polsi, e dalla quale un caschetto – per quanto sempre importante, utile e raccomandabile – non ci salverà.