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Nel formicaio di Barison non si muore, si scompare: Kafka senza allegoria, Beckett senza deserto, Bernhard senza musica

Ci sono libri che non raccontano, ma infestano. Non si leggono: si attraversano come un appartamento malato, come un sogno denso di oggetti, odori, simmetrie. Il formicaio di Marcello Barison è uno di questi. Un romanzo in abito da resoconto, scritto con l’occhio strabico di chi osserva il mondo non dalla finestra, ma da uno spigolo: dove il reale inciampa e si scopre grottesco, delirante, umano troppo umano.
Ascanio Spinosa, professore, vedovo, ossessivo e superstizioso, scende nella tana del suo corpo febbricitante e trova il mondo: un mondo domestico, in scala ridotta, dove ogni gesto – un sorso d’acqua, l’apertura di un cassetto, il taglio di un germoglio – si fa allegoria.
Nel suo appartamento, che è più cervello che spazio, le formiche avanzano come pensieri neri. Il miele si versa come una vendetta. Le patate, con i loro butti corallini, mostrano la biologia della deformazione. Ogni cosa è materia viva, inquieta, viva persino nella sua decomposizione.
Barison ha scritto un libro che non somiglia a nessun altro. È Kafka senza allegoria, Beckett senza deserto, Bernhard senza musica. È l’anatomia di un’attenzione malata, una prosa che diventa stanza, labirinto, salone degli specchi. La lingua, cesellata fino all’ossessione, si fa membrana: avvolge i dettagli, li fissa, li trasforma in eventi. Nulla è irrilevante. Nulla è solo sé stesso. Tutto eccede. Tutto trabocca.
Nel Formicaio non si muore. Si scompare. Un giorno alla volta, una simmetria dopo l’altra. Si vive nella ripetizione, nella memoria del miele caduto, nella voce della moglie assente, nei resti di un gatto accarezzato contropelo. Lì si consuma la verità più semplice: l’esistenza non ha trama. Ha solo traiettorie, larve di senso, residui. E allora Il formicaio è, a suo modo, un libro d’amore. L’amore per il gesto minimo. Per l’oggetto trascurato. Per la tristezza delle cose. È un libro che ascolta il mondo da vicino, come si ascolta un battito che non si è sicuri di sentire ancora. È il canto lucido di un uomo che non sa più da che parte del vetro si trova. E che, forse, come il fiocco di pioppo, galleggia a mezz’aria: già altrove, ma ancora nostro.
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