Un errore durante la fase di monitoraggio del travaglio che ha causato danni permanenti al bambino che, poco prima di nascere rimase per lungo tempo senza ossigeno. A distanza di otto anni, l’ostetrica di turno quella notte è stata condannata a risarcire l’azienda socio sanitaria territoriale per cui lavorava all’epoca (Franciacorta, in provincia di Bresca) con 500mila euro, il 30% della cifra risarcita poi alla famiglia. E’ quanto stabilito dalla Corte dei Conti lombarda con una sentenza emessa lo scorso 14 febbraio.

La vicenda è riportata dal Corriere della Sera che ricostruisce quanto accaduto nel 2015 all’ospedale di Chiari, sempre nel Bresciano. Il bambino durante la fase di travagli rimase per lungo tempo senza ossigeno. Circostanza che gli provocò una paralisi celebrale con la famiglia che denunciò nei giorni successivi l’azienda socio-sanitaria. Tre anni dopo la stessa Asst Franciacorta sottoscrisse con i genitori del minore un atto di transazione del sinistro, approvato da Giudice Tutelare, dove si impegnava a corrispondere un milione e mezzo di euro alla famiglia (che nel frattempo ritirò la querela nei confronti dei due sanitari). I genitori ottennero un indennizzo di 1.659.434 euro, corrispondente al risarcimento del danno biologico (1.550.000 euro) e delle spese legali (109.434 euro).

Dopo aver risarcito la famiglia del neonato, l’azienda segnalò tutto alla Corte dei Conti che chiamò in giudizio sia la ginecologa che l’ostetrica di turno. Dopo anni di perizie, ecco la sentenza: la sezione giurisdizionale ha deciso per l’assoluzione della ginecologa (“nel comportamento non si profila l’elemento soggettivo della colpa grave”) e la condanna dell’ostetrica perché quel giorno, stando alla ricostruzione dei giudici, a partire dalle 21 il tracciato dell’attività cardiaca fetale rivelava chiaramente una frequenza di categoria II, ovvero che può evolvere in una sofferenza del feto.

Una situazione che spinse la ginecologa a praticare l’amnioinfusione – la somministrazione di soluzione salina per ridurre le decelerazioni variabili ripetitive – riportando così i parametri alla normalità. Col ritorno ad una situazione “rassicurante“, la presenza fissa della professionista non era più necessaria in quanto il monitoraggio del travaglio era compito dell’ostetrica.

Tutte le perizie – scrive il Corriere – concordano sul fatto che a partire dalle 22:23 il tracciato del battito cardiaco presentava di nuovo caratteristiche preoccupanti. Nel dispositivo si legge: “In base alla normativa era dunque preciso dovere dell’ostetrica rilevare la mutata situazione e segnalarla prontamente al medico di guardia. Nulla di ciò metteva invece in pratica l’ostetrica”. L’ostetrica nella cartella clinica scriveva per tre volte in un’ora che la “cardiotocografia era rassicurante”.

“Il non essersi accorta o, comunque, l’aver sottovalutato il peggioramento della situazione, che non è stato rilevato dalla ostetrica né alle 23.10 (quando ha annotato nella cartella clinica “CTG rassicurante, attività contrattile regolare”) e nemmeno alle 23.45 (sempre dalla cartella clinica: “Visita: dilatazione completa, scolo liquido limpido. Inizia periodo espulsivo. Si avvisa il medico di guardia “) e, di conseguenza, la mancata richiesta di tempestivo intervento della ginecologa, costituiscono indubbiamente omissioni gravemente colpose dalle quali è derivato il danno permanente al nascituro”.

Un errore nella lettura del tracciato “macroscopico” perché “definito chiaro da tutti i consulenti” scrivono i giudici. L’ostetrica “non si è accorta del peggioramento delle condizioni del feto ed ha omesso di avvertire la ginecologa, come previsto dal protocollo e dalla normativa sanitaria”. Errori che “costituiscono indubbiamente omissioni gravemente colpose dalle quali è derivato il danno permanente al nascituro”. Il danno si sarebbe potuto evitare se ci fosse stato un parto cesareo entro le 23:45. Ma solo a quell’ora l’ostetrica ha richiesto l’intervento, senza urgenza, della ginecologa.

Dal canto suo, la donna si era difesa spiegando che nella serata del parto, alle 23.45 il danno da ipossia del nascituro era ancora evitabile se il medico di guardia fosse intervenuto con tempestività al momento della chiamata. “Tale eccezione è infondata” scrive la Corte di Conti. “Il danno sarebbe stato evitato se fosse stato praticato un parto cesareo intorno alle 23.00 o, comunque, entro le 23.45. Atteso che solo a racconto ora l’ostetrica ha richiesto l’intervento del medico di guardia, oltre tutto senza sollecitarne l’urgenza, è chiaro che quest’ultimo non è stato messo in condizione di operare tempestivamente e nulla poteva fare per impedire il danno: nessuna interruzione del nesso causale tra le omissioni ei ritardi gravemente colposi dell’ostetrica e il pregiudizio subìto dal nascituro può dunque essere ricollegata al tardivo arrivo in sala parto della ginecologa”.

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