In un ordinamento giuridico evoluto – quale è quello italiano – come tale ispirato dal principio di legalità formale, non deve sorprendere il rilievo modellizzante del “fatto” laddove si ponga come regola giuridica vincolante: valga il richiamo alla società di fatto, alla pubblicità di fatto, al funzionario di fatto, solo per citare qualche esempio. Ha dignità e, pertanto, tutela pure la famiglia di fatto in cui la persona convivente more uxorio si venga a trovare in una duplice dimensione “fattuale”: ove cioè assommi alla sua condizione personale altresì l’esplicazione di un’attività lavorativa, appunto, familiarmente di fatto.

Il Codice Civile

La disciplina civilistica sull’impresa familiare è dettata nel relativo Codice agli articoli 230-bis e 230-ter. La prima norma, introdotta dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, di riforma del diritto di famiglia, afferma (al I° comma): “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto” a una serie di prestazioni latamente assistenziali (“mantenimento”) e di natura pecuniaria. Poiché l’articolo in esame si applica ai “familiari” intesi come componenti della famiglia legittima (art. 230-bis, IV comma), nel 2016 si è novellato il Codice, inserendo l’art. 230-ter recante i “Diritti del convivente” (L. 20 maggio 2016 n. 76), riconoscendo a detto convivente una tutela comunque “inferiore” e operativa, temporalmente, solo per fatti posteriori alla sua entrata in vigore. Tale legge pone inoltre un rilevante ostacolo a un’interpretazione estensiva dell’art. 230-bis, poiché l’espressa previsione di una norma ad hoc per il convivente fattuale lascia intendere che l’art. 230-bis non è interpretabile in modo inclusivo di altri soggetti, oltre quelli ivi previsti nel suo paradigma enunciativo. Di qui il doppio registro temporale, nel senso che l’art. 230-bis si applica ai “familiari” dal 1975 e solo dal 2016 al convivente.

La vicenda concreta

Una lite iniziata da una convivente di fatto, che aveva lavorato nell’impresa familiare del suo partner, ha innescato un’ampia ed evolutiva riflessione che coglie il punto in una recente pronuncia della Cassazione (Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili – Ordinanza del 4 maggio 2025 n. 11661).

Gli innesti legislativi e giurisprudenziali

Come già ricordato, l’impianto codicistico originariamente restringeva la portata della nozione di “familiare”. Su tale limite è dunque intervenuta – oltre il legislatore, con la cosiddetta legge Cirinnà del 2016 – la Corte Edu, con riferimento alla vis espansiva dell’art. 8 della Convenzione, e soprattutto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 148/2024 recante un innovativo sguardo d’insieme alla tematica, consegnato nel seguente incipit: “Si registra una convergente evoluzione sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto”. La Consulta, in sintesi, ha abolito la duplicità di tutela, unificando tutta la disciplina nell’art. 230-bis, ora comprensivo del familiare di fatto.

La Costituzione e la famiglia

Va premesso che il modello, secondo la scelta del Costituente, è e rimane la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Permangono, quindi, differenze di disciplina; tuttavia, quando si tratta di diritti fondamentali, quelle diversità sono recessive e la tutela non può che essere la stessa, che si tratti ad esempio del diritto all’abitazione, o della protezione di soggetti disabili o dell’affettività di persone detenute. Parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.) che, quando espletato nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione. 

Le SS.UU. n. 11661/2025

Tirando le fila del complessivo e pluriarticolato discorso e recependo il dictum della Consulta, la menzionata ordinanza delle SS.UU. del 4 maggio 2025 ha disposto che la vicenda di una convivente di fatto, collaborante nell’azienda familiare del proprio partner, in un arco di tempo anche pre-2016, dopo la reiezione, in primo e secondo grado, della sua pretesa economica, dovesse essere reinterpretata sul canone argomentativo per cui – in tema di valutazione dell’apporto lavorativo del convivente more uxorio nell’impresa familiare – la relativa ratio decidendi debba essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale interpretativa-additiva dell’art. 230-bis, terzo comma Cod. Civ., e in via conseguenziale demolitoria dell’art. 230-ter Cod. Civ.