In un Paese normale i processi non durano 1000 anni.
In un Paese normale i tempi lunghi dei processi non si “accorciano” con una discutibile e anticostituzionale legge ad hoc che modifica l’istituto della prescrizione.
In un Paese normale non si dovrebbe andare avanti o suon di leggi speciali.
In un Paese normale non si legifera sull’emotività o in virtù di un fatto di cronaca accaduto. Seppur grave.
In un Paese normale non si dovrebbe legiferare o decidere per far contenta l’opinione pubblica.
In un Paese normale gli imprenditori dovrebbero fare gli imprenditori, i politici, i politici, i magistrati, i magistrati.
In un Paese normale, con una giustizia giusta, non si dovrebbe parlare di scudo penale a favore di aziende. A maggior ragione a favore di una sola azienda.
In un Paese normale il caso Ilva avrebbero dovuto affrontarlo e risolverlo, l’azienda, lo stato e gli operai che rischiano di perdere il posto di lavoro. Ma può capitare, invece, che una procura distante 963,1 km dall’ipotetico luogo del commesso reato, la tocchi pianissimo prendendo carta, penna, astuccio e calamaio stilando un comunicato stampa annunciando, vox populi, vox dei, di aver aperto un fascicolo modello 45, per capirci senza indagati e senza ipotesi di reato, sulla gestione dell’acciaieria Ilva «ravvisando un preminente interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali» inserendosi di fatto nel dibattito tra azienda, stato e operai. Avocando a sé i poteri del presidente del Consiglio dei ministri e del ministro dello Sviluppo. Complicando ulteriormente i già precari equilibri tra le parti in causa. Di fatto chiarendo, magari non volendo, che invece c’è proprio bisogno dello scudo penale per fare impresa nel nostro Paese. D’altronde quando la politica non fa politica lo spazio verrà sempre di più occupato da altri. Ça va sans dire!
In un Paese normale non si ferma un’opera per motivi burocratici. Opera che, con molte probabilità, avrebbe evitato la tragedia di vedere ancor più sott’acqua l’unica, bellissima e inimitabile Città di Venezia. E anche qui illustri rappresentanti del popolo italico, i soliti giustizialisti un tanto al chilo, da giorni urlano a squarciagola: opera fatta solo per pagare le mazzette. Ebbene: la giustizia deva fare il suo corso, le infrastrutture anche.
Ma noi non siamo un Paese normale, noi siamo un Paese speciale e infatti affrontiamo l’emergenza giustizia, e sottolineo emergenza, senza seguire un filo logico, mentre dovremmo tenere la barra dritta, il timone ben fermo seguendo il faro del buon senso, con lucidità, tanta tranquillità e possibilmente una buona dose di libertà, molta preparazione e un pizzico di saggezza misto a esperienza. Siamo un Paese con un sistema giudiziario garantista, dove si è innocenti fino a prova contraria, dove sono previsti tre gradi di giudizio, dove ci sono dei riti alternativi per abbreviare i processi. Invece nulla di ciò trova applicazione nella vita reale.
Nel Paese reale viviamo circondati da molti giustizialisti, quelli a corrente alternata per capirci.
Nel Paese reale constatiamo, tristemente e sempre più spesso, che un avviso di garanzia è una condanna a tutti gli effetti in barba al primo, secondo e terzo grado. Che spesso i giudizi abbreviati, nati per abbreviare i processi, non abbreviano affatto. Dimentichiamo sistematicamente la civile, seppure squisitamente tecnica, differenza tra indagato, imputato e condannato.
Nel Paese reale le procure decidono la politica industriale di un Paese. E allora, a volte indignati, a volte rassegnati, assistiamo al disfacimento dei principi cardine del nostro sistema giudiziario e veniamo soffocati dalla Repubblica dei Commissari. Decidere di non decidere e fare in modo che non decida nessuno. Commissario al Mose, commissari all’Ilva. Piovono commissari. Un commissario al giorno leva il medico di torno, se così fosse potremmo essere tutti più sani e di robusta costituzione nel Paese della Costituzione più bella del mondo…