Quando arriveranno a Milano gli ispettori del ministro Bonafede per verificare che cosa non abbia funzionato nel permesso di uscita concesso all’ergastolano Antonio Cianci e sfociato in una rapina e nel ferimento di un pensionato, tengano a mente due cose.  La prima è che se ci sono due realtà che funzionano nel sistema giudiziario italiano, queste sono la categoria dei giudici di sorveglianza e il carcere di Bollate. La seconda è che è molto vicina allo zero la percentuale di chi torna a delinquere dopo aver percorso tutti i passaggi di reinserimento, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Cerchiamo quindi di non trarre conclusioni generali da quello che è solo un fatto isolato ed eccezionale. Antonio Cianci era entrato in carcere da ragazzo, dopo aver ucciso una prima volta a 15 anni e una seconda a 20, e in carcere è diventato uomo, fino all’età che ha oggi, 60 anni.  Probabilmente il suo avrebbe potuto essere un caso psichiatrico, se la Corte d’assise che lo ha condannato all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri ne avesse riconosciuto l’infermità mentale, come era stato chiesto dalla difesa. Le cose avrebbero potuto andare diversamente se lui avesse potuto avere al suo fianco qualcosa o qualcuno che l’avesse aiutato a contenere il suo impulso alla violenza e all’aggressione fisica nei confronti degli altri esseri umani.

Parliamo di impulso alla violenza, spesso determinato dalla paura, perché la dinamica di quel che è successo all’ospedale S. Raffaele di Milano ha nel suo svolgimento qualcosa di più di una rapina commessa con la minaccia di un taglierino, perché la piccola arma ha colpito il collo della vittima, cui Cianci voleva rubare cellulare e portafoglio, fino a sfiorare la carotide e diventare un tentato omicidio. Ha colpito e non era necessario farlo, neppure dal punto di vista di un rapinatore seriale. Ha colpito pur non avendolo mai fatto nei 40 anni di detenzione. Tanto che la relazione dell’équipe di psicologi, criminologi ed educatori del carcere di Bollate e il parere della vicedirettrice e infine anche del giudice di sorveglianza avevano consentito all’ergastolano di fruire di permessi di uscita fin dall’aprile scorso, una volta addirittura per tre giorni. Tutti esperimenti con esito positivo. E nulla aveva lasciato presagire che un uomo che aveva passato tutta la sua vita adulta da rinchiuso avrebbe potuto abusare della ritrovata libertà fino a rischiare il “fine pena mai” con un gesto così violento da sfiorare l’omicidio. Un caso molto particolare dunque, ci auguriamo che gli ispettori del ministero ne tengano conto e giudichino con la freddezza necessaria, senza farsi influenzare dai teorici del “buttiamo la chiave” e da tutti coloro che, non avendo il coraggio di dichiararsi favorevoli alla pena di morte, quasi che lo Stato potesse farsi a sua volta assassino, vedono nella pena che non finisce mai la soluzione di ogni problema di devianza.

Tiziana Maiolo

Autore