Qualche domanda dovremmo farcela
Nordio dilapida soldi pubblici per nuove carceri dove l’aspettativa di vita è bassa: già 20 morti in 15 giorni
Nuove carceri? Davvero?
Il 18 gennaio l’agenzia del demanio del Ministero della Giustizia ha acquisito un’ampia porzione della ex caserma Rotilio Barbetti a Grosseto, per farne un “nuovo polo penitenziario” che “potrà accogliere molti più detenuti dell’attuale carcere di via Saffi”. Così si legge nel comunicato ufficiale. Un complesso che “insiste su un’area di 15 ettari e ospita 40 fabbricati di varie dimensioni” la cui riqualificazione avverrà “attraverso interventi finanziati dal ministero della Giustizia”. Quindi è ufficiale: si decide di dilapidare il patrimonio pubblico per fare nuove carceri. Perché per ristrutturare un’area di tale ampiezza bisognerà investire non poco del bilancio di via Arenula. Per realizzare una di quelle strutture dove l’aspettativa di vita ha una percentuale drammaticamente bassa: 20 morti nei primi 15 giorni del 2024 nelle patrie galere dello stivale. Di cui 6 suicidi.
Le stesse strutture che generano la propria ‘clientela’ in un vero e proprio processo di fidelizzazione, visto che 7 su 10 vi rientrano, una volta usciti. Ora, senza essere imprenditori affermati, va da sé che immettere denaro in un progetto perdente è scelta, a dir poco, improvvida. Ma soprattutto, mi chiedo come non si riesca ad acclarare nelle sedi istituzionali la virtuosità, anzi la convenienza, di investire in progetti di inclusione lavorativa. Lo dicono ormai anche organismi governativi, come il CNEL: chi esce avendo lavorato, non rientra. Un mantra che sta diventando stucchevole riproporre, vista la sordità degli interlocutori, che potrebbero altrimenti destinare quel denaro sostenendo sussidiariamente chi riesce fattivamente a creare condotte di vita non recidivanti, come le tante cooperative sociali di economia carceraria.
Nel suo piccolo, La Valle di Ezechiele, nata nel penitenziario di Busto Arsizio, si inserisce nel solco di queste realtà e porta avanti la germinazione di una cultura della giustizia che non si fissi sulla colpa, ma generi responsabilità. Che non si ancori al passato, ma si slanci al futuro.
Che non permetta di fare della condanna un pericolosissimo processo identitario, per i condannati e per gli altri. Che ricordi a tutti che il primo pilastro delle nostre istituzioni democratiche recita così: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Così con la cooperativa abbiamo dato vita nuova a ben 26 persone in questi tre anni di attività. Nel 2013 siamo già stati condannati come nazione Italia, perché il nostro modo di trattare le persone in carcere era disumano (‘trattamenti inumani e degradanti’). Dal 2012 ad oggi il numero di denunce è sceso da 2.818.834 a 2.183.045: 700.00 in meno (dati 2022). Le persone in carcere erano 65.000, poi scese per effetto della condanna della Corte Europea, e risalite a 60.000 nel 2019. Scese di nuovo per il covid, e ora nuovamente risalite a 60.000, di cui 4.000 nell’ultimo anno. Su 47.000 posti ufficiali. Davanti al decrescere dei reati e al crescere delle persone incarcerate, qualche domanda dovremmo farcela.
Di fronte a un calo demografico al momento inarrestabile, che determinerà non solo un ridimensionamento della nostra filiera educativa, ma anche dei suoi insuccessi – che gli arresti fermano e attestano – qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla consapevolezza che le carceri italiane non sono piene di persone di origine straniera, visto che 7 su 10 sono del Bel Paese, qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla manifestazione muscolare che crede di generare sicurezza aprendo un nuovo carcere, qualche domanda dovremmo farcela.
Ci sono associazioni come Nessuno Tocchi Caino e la sua agguerrita Presidente Rita Bernardini, che alzano la voce e il più ancor rumoroso silenzio dello sciopero della fame, iniziato oggi, per dire l’irragionevolezza di un sistema che sembra sempre sfuggire a ogni forma di prensilità.
Ci sono rappresentanti delle istituzioni che stanno coraggiosamente prendendo parola, pur appartenendo a schieramenti e organi diversi: penso all’On. Gadda e all’On. Giacchetti, ma anche alla Presidente della Commissione carceri di Regione Lombardia, Alessia Villa, recentemente intervenuta in consiglio a insistere su progetti di inclusione lavorativa. Ma come forse direbbe il Direttore Renzi de Il Riformista, che ringrazio per ospitare queste mie righe, la politica al tempo degli influencer non ama parlare di carcere. Ci vuole grande libertà interiore e ‘quanto basta’ di ‘spregiudicatezza istituzionale’: quella che serve per dire le cose giuste, non quelle che piacciono. Parliamo a un malato da sanare, non a un cliente da compiacere. Non nego che non dispiacerebbe vedergli prendere la parola nel cortile della nostra cooperativa, nell’annuale convegno estivo. Se ne avesse il piacere e la possibilità, lo accoglieremmo volentieri, come accogliamo tutti quelli che non si tirano indietro quando c’è da parlare di carcere. Magari con una visione meno miope di quella cui stiamo impotentemente assistendo.
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