“Il potere che conosci e pratichi benissimo non coincide con i fondamentali della politica, che sono cosa diversa” spiega pazientemente un presidente del consiglio uscente, Sinisi, al nuovo presidente, Marcelli, rampante leader quarantenne dello stesso partito, nel romanzo di Luciano Violante (Marsilio) Notizie della signora Marthensen? Questo titolo, rassicurante proprio perché, per certi aspetti, fuorviante, adopera la forma del giallo e il ritmo dell’inchiesta per la ricerca del colpevole come instrumentum funzionale a svolgere una chiara, avvincente, sintetica quanto estremamente completa trattazione del tema del potere.

Su cui quel presidente uscente, nel medesimo dialogo, precisa ulteriormente: “Il potere quando è fine a se stesso, come mi pare essere il tuo caso, divide; la politica, quando è animata dal senso dello Stato, ma non so se è il tuo caso, unisce”. Né, in una vicenda tutta svolta tra le grandi istituzioni repubblicane (due personaggi rilevanti, Pastor e Ascari, entrambi avvocati, aspirano alla presidenza della Repubblica), poteva mancare Roma, rispetto alla quale, a partire da una citazione di Goethe, basta all’autore riflettere sul fatto che il “popolo romano ha sempre avuto una propria dignità, perché la sottomissione imposta non è mai diventata subalternità accettata”.

Una chiave di lettura opportuna del romanzo di Luciano Violante credo possa provenire dal mondo musicale: come in ogni opera, teatrale, sinfonica o cameristica, è possibile individuare una nota dominante oppure un leitmotiv, così può accadere per i romanzi, soprattutto se la trama dei fatti e delle idee che li abitano si sviluppa in un modo coerente tanto da apparire un processo more geometrico demonstratum, come avviene per la storia dell’avventurosa signora Marthensen. In questo romanzo, nonostante la pesantezza dei giochi di potere, la gravità dei fatti delittuosi, il riconoscimento dei molteplici limiti di ogni comunità politica, la nota dominante è schiettamente positiva. Addirittura – azzardo – un Do maggiore, con una chiara apertura non solo etica, ma anche spirituale, che arriva quasi alla fine.

Il giovane sostituto procuratore Berg ha tra le mani il caso della scomparsa della signora Marthensen, compagna di vita (e di affari) di Pastor, celebre avvocato penalista e stimato uomo politico. L’indagine che condurrà vittoriosamente a termine mette il giovane Berg in contatto con la realtà e gli uomini delle istituzioni, a partire dal procuratore capo di Roma, Tommasi, fino ad arrivare ai servizi segreti. Quest’immersione nei meccanismi complessi della vita politico-istituzionale di una democrazia consente a Luciano Violante di svolgere una vera e propria “educazione sentimentale” del lettore rispetto a quella complessità: ci introduce e ci inserisce in essa, ce la fa toccare da vicino, ce la rende osservabile disarticolando, in questo modo, i pregiudizi qualunquisti con un discorso fieramente, benché spesso ironicamente in punta di piedi, antipopulista. In più punti dell’intreccio emergono notazioni sul potere, come quella da cui siamo partiti: esse sono tutte ambivalenti, perché ritraggono la complessità della vita e della storia politico-istituzionale di uno Stato.

In questa luce va letta la distinzione tra il potere autoreferenziale, insomma il potere fine a sé stesso, e il potere strumentale a realizzare, magari lentamente, certo imperfettamente, i bisogni dell’umanità e della comunità politica. Di certo è potere anche la separazione tra privilegio e persone comuni, evocata parlando di Roma e Goethe: ma un antidoto si annida nella natura del popolo, e va riconosciuto, e rispettato. La politica è misura, compromesso, strutturale infaticabile mettersi in relazione, “bordeggiare” (per ricorrere a un verbo inventato da Arrigo Boito per il Falstaff di Giuseppe Verdi). Non ha bisogno di santi, anzi. Ma non per questo può essere ridotta da un vuoto sguardo moraleggiante a una melma sempre e comunque insudiciata: sarà il presidente della repubblica a chiedere “Cos’è questa storia della politica come affare disdicevole cui tutti si stanno stupidamente accodando? Prima parlano male della politica, del Parlamento, dei partiti e poi lamentano la separazione tra cittadini e istituzioni”.

Infine, la politica è memoria, come insegna l’ultimo colloquio tra Sinisi e Marcelli, un quarantenne al quale si imputa il compiaciuto difetto di memoria-conoscenza: “Siete senza storia, perché siete senza passato, senza maestri. Non è colpa vostra; i partiti si sono suicidati senza testamento e la vostra generazione non è quella degli eredi, che latitano; è quella dei semplici successori”. Mentre la trama si svolge, questa messe di considerazioni in forma dialogica delinea la nota dominante di cui dicevo: è il Do maggiore del sostanziale ottimismo che fonda il racconto, di un atto di fiducia verso la democrazia, verso la possibilità di un esercizio legittimo del potere, verso le istituzioni repubblicane, dalla presidenza della Repubblica ai servizi segreti.

Vi è un punto del racconto, verso la fine, quando il nostro sostituto procuratore Berg, deciso a sposare la valorosa Margherita (che sfida i falsi pudori della buona conversazione a tavola, osando parlare garbatamente di sesso), si trova a conversare col parroco, Don Michele. Ed è qui, in questa parentesi di vita privata e filosofico-sentimentale dove il lettore si riposa prima della stretta finale, che si trova la chiave di lettura etico-spirituale che porta a emersione compiuta la nota dominante: “Mi sono fatto l’idea che nella vita”, spiega Don Michele ai nubendi, “ci vogliano pazienza e un’idea di fondo; che Dio dovette sconfiggere le tenebre e l’abisso, cioè il male, e ci mise tempo e fatica per sconfiggere il male”. Pazienza e un’idea di fondo, poco a poco: i fondamentali della “buona” creazione, in metafisica (Die Schöpfung, la Creazione di Haydn ruota attorno al Do maggiore…); della “buona” politica, su questa terra.