È vero. Dalla crisi del 2007 al 2019, il Nord non è riuscito a trainare il Sud. Ritengo sia dunque legittimo denunciare la défaillance della locomotiva italiana. Ma il Sud, da solo, potrebbe forse fare meglio? Io dico di no. E se è così, come possiamo noi meridionali rimanere freddi e distaccati rispetto al dramma di Milano e di tutta l’area che va dal Po alle Alpi? Succede invece questo. Nessuno nega che per effetto della pandemia il Pil si ridurrà lì molto più che dalle nostre parti. Ma ciò nonostante, anche in quest’occasione, molti meridionali continuano a rivendicare l’esclusiva dell’emergenza. Quasi per diritto naturale. Ieri ho letto e riletto un’intervista al “manifesto” di Adriano Giannola, il presidente della Svimez.

Il passaggio che più mi ha colpito è il seguente. “Qual è il messaggio che viene, subliminale, da grandi intellettuali e accademici? Che occorre aiutare il Nord, la parte che ha subito un dramma umano pesantissimo. Ma l’impatto umano non c’entra con quello economico”. Cosa vuol dire? Il ragionamento di Giannola mal si adatta a una sintesi semplicistica. Tuttavia, ruota intorno a un concetto facile da cogliere: in tutti questi anni – dice il presidente della Svimez – l’Italia non ha fatto altro che sussidiare “il Nord che ha ucciso il Sud”. Per cui, è vero che il Nord ora soffre più del Sud, ed è vero che lì si sta vivendo un dramma pesantissimo, ma pazienza. E guai a dirottare altrove somme destinate al Mezzogiorno, come si è cercato di fare anche di recente con la proposta di congelare la clausola del 34% degli investimenti in conto capitale. Chiaro? Chiarissimo.

Tuttavia, visto che quella proposta non è stata avanzata da un governatore leghista o da un politico del Nord, ma – come correttamente ricorda Giannola – da un organismo governativo di cui ha la responsabilità politica un sottosegretario del M5s eletto a Taranto, tale Mario Turco, non sarebbe il caso, una volta tanto, di affrontare la questione a prescindere da un’ottica puramente contabile? Non c’è e non ci appartiene, forse, una dimensione del meridionalismo che tocca anche temi ugualmente decisivi, come l’organizzazione dello Stato e la semplificazione della decisione politica? Eppure, si parla solo e sempre di questa benedetta clausola del 34%, tra l’altro attribuendone solitamente e furbescamente la paternità al nemico “nordista”, e mai di altro.

Ad esempio, non si parla abbastanza del fatto che il Sud sta clamorosamente perdendo almeno due grandi occasioni. La prima riguarda il calendario della ripresa. La seconda il ponte di Genova. Proprio perché meno colpito dalla pandemia – ed è la prima questione – il Sud avrebbe potuto chiedere di anticipare qui, in condizioni di maggiore sicurezza, la cosiddetta fase 2; e quindi avrebbe potuto spingere per rafforzare attività produttive e servizi legati al territorio, ad esempio nei settori dell’agricoltura e del turismo. È successo invece che i governatori del Sud a tutto abbiano pensato tranne che a questo: troppo impegnati a elogiarsi per la tenuta dei rispettivi sistema sanitari, hanno dimostrato di fatto di essere i primi a temerne la fragilità.

Contemporaneamente – ed è la seconda questione – cosa ci dice il caso Genova se non che poteva essere fatta la stessa cosa anche in altre aree strategiche del Sud? Poco più di dieci mesi per costruire il ponte sul Polcevera: 1067 metri di lunghezza, 18 piloni, 350 operai impegnati. Un miracolo? “Macché”, ha risposto a Renzo Piano. “Questa – ha spiegato – è la normalità. Quando la gente è competente, le cose si fanno. L’Italia è piena di persone competenti. Questo ponte è l’esempio di come, se si vuole, anche in Italia le cose si possono fare”. Chiaro? Non tanto. Noi, infatti, continuiamo a parlare solo di soldi e mai di procedure. Di clausola del 34% e non di Bagnoli, bloccata da oltre un quarto di secolo.