I pastori forse nemmeno lo sanno della pandemia, corrono troppo veloci, davanti o dietro i propri compagni di vita. Ogni anno di questi tempi, Tommaso lo si può trovare nella Valle dei Mulini dietro a Uggiate Trevano, guarda il cielo per osservare i falchi in agguato sopra il suo gregge di 700 bestie: pecore, capre, asini e cani, sono una poesia che marcia per tutto l’inverno sulla Pianura Padana e a giugno prende i sentieri antichi dell’alpeggio. Migliaia e migliaia di bestie in un su e giù che appare eterno, dal piano al monte, sospinte da una quarantina di pastori nomadi di cui il tempo si è scordato, lasciandoli scorrere come sabbia dentro infinite clessidre sfondate.
I pastori, tutti, sono poesia: «la luna illumina la pianura solitaria. Un corso d’acqua, qua largo, là stretto, serpeggia fra le stoppie nere, e sparisce luccicando all’orizzonte, ove pare che vada a gettarsi silenzioso in un mare di vapori azzurri, in un vuoto lontano. Sono le prime ore della notte. Il pastore guarda le greggie pascolanti», scolpiva fra prosa e poesia Deledda, e Alvaro proseguiva «non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali», e D’Annunzio, in sola poesia, «ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io cò miei pastori?».
Non è esistito un tempo in cui le lettere migliori, in prosa, poesia o canzone non abbiano innalzato un’ode al pastore: sardo, calabrese, abruzzese o di qualunque isola del mondo, e qualcuno, di certo, ne starà imprimendo elegia per i millenni a venire. Difficile che qualcuno si cimenti in un inno al manager o all’influencer, ora o nel futuro, pur se sappiamo che ogni petto umano cova sentimenti. Ci sono mestieri e professioni in cui solo una parte si potrebbe riconoscere, e poi ci sono categorie umane di cui elettivamente ogni uomo fa parte. Il pastore non è un lavoro, è un’elezione di umanità di cui ognuno di noi conserva l’iscrizione nei geni. A ciò è dovuta l’empatia per i pastori, per questo gli si perdonano le ecatombi, inevitabili, perché somigliano a un sacrificio pagano di cui tutti abbiamo memoria.
Il pastore è il legame indissolubile fra l’uomo e Mana Gi, la madre terra, resiste per la propria famiglia, per se stesso, per noi, rimane aggrappato con le unghie all’ultimo brandello di umanità che il cinico sistema economico in cui stiamo affogando concede. E tutti siamo stati pastori di ogni isola, e tutti vorremmo esserlo ancora, pastori. Che sono l’ultima poesia d’Occidente.
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