Il libro di Nicola Lagioia
Omicidio Luca Varani, un delitto che riguarda tutti noi

Ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia (ed. Einaudi) come rapita, in un giorno e una notte e so che non è capitato solo a me. Il libro racconta del caso Varani, l’omicidio efferato di un giovane, Luca Varani, per mano di altri due, Marco Prato e Manuel Foffo, avvenuto nel 2016. Del caso in tv, sulla carta, sul web, si è parlato tantissimo. Il fatto che i due assassini e la vittima fossero fra loro più o meno coetanei ma appartenessero a ceti sociali molto diversi, l’omosessualità vissuta e malvissuta, la cocaina, la particolare atrocità del delitto, avevano scatenato l’attenzione dei giornalisti e dei lettori.
Finito il libro mi domandavo perché e in che cosa questa storia mi parlasse, perché me la sentissi appiccicata addosso. È sempre capitato, e capita di più in momenti in cui la società cambia rapidamente e si fa opaca, che gli scrittori provino a interrogare la cronaca nera, è come se nei fatti di sangue emersi attraverso la cronaca si intravvedesse la possibilità di vedere scoperchiata la società reale e nascosta. Questo vale paradossalmente ancor di più in un momento come questo in cui l’iper-rappresentazione attraverso i social sembra celare qualcosa di non detto e che sospettiamo indicibile. Un’operazione letteraria come questa fa subito venire in mente operazioni analoghe, A sangue freddo di Capote, L’avversario di Carrere, qui l’obiettivo è simile: il fatto di sangue tiene insieme il male umano, le pulsioni più oscure e permanenti, ma le esprime nella forma attuale e già in questo sembra promettere la rivelazione di un segreto.
Però, quando si prende in mano la cronaca nera per raccontarla con un altro mezzo, quello letterario, ci si trova davanti a una narrazione già entrata nell’immaginario. Parte da qui Lagioia, mettendo a frutto una sorta di ingenuità sistematica che gli è propria. Identifica nella narrazione che fa dell’assassino un altro radicale, un mostro, un discorso che non tiene. Per Lagioia, prima che noi che lo leggiamo, la domanda è: perché questo delitto mi riguarda? Per rispondere a questa domanda, usa uno strumento letterario essenziale, il processo di identificazione. Non ci chiede l’identificazione negli assassini, non subito, ci porta a usare come specchio le persone che sono state tramortite dal fatto di sangue, come il tecnico radiofonico che vedendo alla televisione il palazzo dove è avvenuto il delitto (che gli sembra il proprio), per un momento si convince che il proprio figlio ne sia coinvolto, indifferentemente come assassino o come vittima, o la giovane giornalista ossessionata dal caso, o Lagioia stesso.
Come fosse una porta, l’autore ci racconta un suo momento di scollamento, in cui il suo disagio di stare al mondo è venuto fuori in maniera incontrollata e pericolosa. Il libro si costruisce per frammenti, tasselli il cui montaggio permette di ricostruire un puzzle che se non riesce mai a completarsi, a rivelare il movente, ma in compenso permette all’autore e a noi che leggiamo di formulare domande credibili. Il racconto di Roma nella sua pesantezza, nel suo tripudio di topi morti e gabbiani, il racconto a latere del turista olandese che accompagnano il romanzo come una cornice, ne sono forse la parte più debole. Il racconto di Roma sembra voler preparare l’atmosfera del delitto, ma al contrario la violenza e la cecità del male spazza via l’atmosfera, quello che accade è come accadesse sradicando anche l’appartenenza alla città, anche al di là del suo degrado. Via via che ci avviciniamo al cuore, per frammenti che illuminano le famiglie, che mostrano il giorno successivo al delitto, le persone vicine agli assassini e alla vittima, attraverso cerchi concentrici che si stringono sempre di più in direzione di quelle ore, il ritmo si fa potente, l’orrore concreto aderisce anche ai nostri pensieri.
Lagioia racconta anche il mondo della vittima, riuscendo in un’impresa difficile: raccontarla senza includerla fra i moventi: tuttavia anche nel racconto di Luca Varani emerge qualcosa che ci riguarda. Succede, nell’ascolto delle voci, qualcosa di imprevisto: sembra che il male si stacchi dall’agire, prenda una sua autonomia. La casa e la stanza dove l’omicidio è avvenuto sono gonfie di un male concreto di cui neanche gli assassini riescono a farsi carico. Un male inaudito c’è, si compie, ma assumersi la responsabilità di quel male sembra sia al di là delle possibilità umane. Nella ricerca strenua di qualcosa che somigli a un movente, Lagioia si trova davanti una questione che non spiega davvero l’omicidio ma che riguarda la condizione attuale. Marco Prato e Manuel Foffo li vediamo compressi, ognuno a suo modo, tra un’autorappresentazione e una percezione di sé che cozzano violentemente fra loro. Un obbligo percepito di splendore e di potenza contro una percezione di indegnità o una continua frustrazione.
Ma non solo loro, buona parte delle voci che ascoltiamo nel libro rivendica un’immagine pettinata a dispetto di un’evidenza. L’ipocrisia che sembrava svanita con la società all’apparenza ordinata e borghese di cui era emanazione, riemerge in forma nuova: l’autorappresentazione rigidissima sembra vivere una nuova stagione gloriosa, può prendere la forma dell’eterosessualità, della bellezza, del successo sociale, della ricchezza, ma sono forme vuote che nascondono – mai del tutto – il loro contraltare. In questo, ci racconta La città dei vivi (che evoca i morti, sotto), questi assassini ci riguardano, nella scissione che riconosciamo anche nostra, che loro hanno vissuto con una rigidità e una violenza così forte che fra la percezione e la rappresentazione si è aperto lo spazio per un delitto efferato cui manca la testa, la responsabilità, su cui cadere.
© Riproduzione riservata