Erano le 18 del 10 giugno di ottanta anni fa quando Benito Mussolini, Duce del fascismo, si affacciò al balcone di Palazzo Venezia a Roma e annunciò agli Italiani l’entrata in guerra accanto alla Germania. Disse che era arrivata “l’ora delle decisioni irrevocabili” e che la dichiarazione di guerra era già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna.
Sono parole che abbiamo ascoltato tante volte in questi anni, così come abbiamo visto le immagini di quella serata, diventate ormai una scena canonica in qualunque racconto si faccia del Ventennio fascista, dal 1922 alla sua conclusione che coincise con l’esito disastroso proprio di quella guerra.
Ancora risuona quell’urlo strozzato di Mussolini della “parola d’ordine categorica e impegnativa per tutti: Vincere!”. Quante volte in questi mesi abbiamo sentito parlare di una Nuova Guerra, dell’Italia – e poi del mondo – chiamati a un confronto decisivo e drammatico come appunto è un conflitto in cui ne va della stessa sopravvivenza di un Paese e pure dell’Umanità. Una guerra diversa, certo, l’abbiamo ascoltato dai virologi, dai politici, dai commentatori, senza un inizio certo, non dichiarata, contro un nemico invisibile, aggressivo, che avanza con la potenza del contagio, rispetto al quale le difese misurano tutte le difficoltà e le incertezze sulle soluzioni, sui mezzi, sulle strategie, sui comportamenti, sulle difese.
Una guerra senza bombe e cannonate, ma non per questo meno micidiale negli esiti, sia quelli tremendi dei bollettini di morte, sia quelli potenzialmente catastrofici sull’economia e la tenuta stessa di un assetto politico-sociale e, allargando lo sguardo, dell’equilibrio geopolitico globale e della sostenibilità di un modo di produrre e consumare
Allora come oggi una stessa parola per descrivere una situazione, per restare – si fa per dire – dalle nostre parti, in cui il Paese si trova di fronte a un’emergenza che introduce una discontinuità e allunga ombre inquietanti sulla capacità di reggere all’urto e sul futuro: Guerra.
Allora, Mussolini entrò in una tutta analogica e politica. Analogica perché fatta di eserciti che avanzano, di aerei che bombardano, di fanti che vanno all’attacco. Politica perché quella decisione venne a chiudere una lunga fase in cui Mussolini da un lato era vincolato al Patto d’Acciaio firmato con la Germania, dall’altro era stretto fra la consapevolezza dell’impreparazione militare, l’impressione delle vittorie tedesche e la paura di restare ai margini nel caso di una vittoria della Germania.
Ci furono anche trasversalità con Francia e Inghilterra nella convinzione/illusione che l’Italia potesse fare da mediatore nel conflitto senza entrarvi. Alla fine, prevalsero le pressioni tedesche e appunto il timore di restare esclusi da una conferenza di pace.
Sappiamo come andarono le cose. La guerra diventò mondiale e l’Italia scontò drammaticamente i limiti militari, di forze e strategie, e quelle di un’industria incapace di sostenere le sforzo bellico.
A parte, una questione di fondo che riguarda il modo in cui la guerra sia andata a contestualizzarsi nella parabola stessa del fascismo, se cioè ne fu una conseguenza strutturale o un’avventura in cui in giocatore si sedette al tavolo con scartine in mano, un errore di valutazione, un bluff finito male.
Quella guerra sanciva un confronto internazionale in cui l’Europa era quella delle nazioni, tre fra le principali con regimi totalitari, che ancora svolgevano un ruolo centrale nella politica mondiale.
L’Italia fascista aveva manifestato un attivismo coerente con un’ideologia imperiale (la Terza Roma..), sia pure sempre più sovrastata dalla coazione bellicista tedesca e con la remora di essere alla fine un vaso di coccio tra i vasi di ferro, e aveva mantenuto sponde aperte con Francia, Gran Bretagna e con gli Stati Uniti ancora isolazionisti. La guerra avrebbe sancito il decentramento del Vecchio Continente e il nuovo bipolarismo USA/URSS.
E’ il caso di ricordarlo per capire quanto siamo lontani e anche certe continuità. Oggi c’è l’Europa, più monetaria che politica, e però l’effetto della neo-guerra in corso è stato anche di aver attivato una dimensione comunitaria fino a qualche mese fa impensabile. Non per questo sono tramontate le nazioni, sospese tra una fragile integrazione e la rivendicazione di sé, l’asse che è al tempo stesso una contrapposizione tra Francia e Germania (un’antica storia..), la Gran Bretagna anch’essa presa tra il salto oltre Manica e una volontà all’isolamento post-imperiale sancito dalla Brexit e noi anello debole con un fluttuante politica estera, spesso più congiunturale che realmente strategica.
E questa Europa porta con sé il paradosso di una forza tutta potenziale, a fronte di una debolezza nella scena diventata globale con potentati aggressivi vecchi e nuovi, dagli Stati Uniti di Trump meno global e più isolazionisti, alla Cina lanciata alla conquista del mondo e alla Russia di Putin zar indomito ma con debolezze strutturali. E poi il sorgere di India, Brasile, tigri orientali..
La neo-guerra del Covid-19, dopo qualche esitazione iniziale, si è dimostrata mondiale, il virus non ha fatto eccezioni, semmai sono gli antagonisti che si sono divisi nella strategia, fra chi ha alzato barriere – mascherine, distanze.. – e chi invece ha lasciato libero il passo, puntando – costi quel che costi – all’immunità di gregge. E in controluce in questa neo-guerra si è continuato a combattere quella di prima, quella per la supremazia internazionale, per il controllo delle risorse e la supremazia militare, economica e finanziaria. La neo-guerra si è sovrapposta a uno scenario e lo ricostituisce. Come? Con quali spostamenti? Con quali egemonie?
E lasciando per un momento da parte la geopolitica, questa guerra è diversa dall’ultima che ci toccò anche nella sostanza. Il nemico è un virus di cui stiamo misurando tutta l’ambiguità: è reale ancorché invisibile, e è virtuale perché vive e si moltiplica non solo nel corpo degli infetti ma nel sistema dell’informazione.
Ha monopolizzato lo spazio/tempo delle news e dei talk, si è imposto a discorso totalitario fino a creare una bolla contraddittoria come la percezione che se ne ha. E ci ha costretti all’interno del simulacro di una guerra con le sue fasi e le sue strategie. Difficile se non impossibile distinguere.
E sarebbe sbagliato pensare a una bolla autoreferenziale. Guai dimenticarsi del Convitato della Politica che lungi dall’essere uno spettatore ha interagito con quella bolla e per quanto possibile l’ha usata e la usa, a tutti i livelli, nella gestione interna del potere e nella scenario internazionale delle relazioni. E basterebbe anche ricordare la vicenda dell’app Immuni, così scivolosamente sul confine tra prevenzione e controllo. E, allora, una domanda che resta aperta, fino a che punto il virus è il Nemico o invece è uno strumento, un paradossale alleato del potere e del suo rapporto con la società?
Sarebbe irrispettoso e antistorico paragonare il Balcone di Piazza Venezia alle apparizioni del Presidente del Consiglio dallo schermo della tv. Le guerre sono diverse, e se la democrazia è diversa dal regime di allora, ne constatiamo però ogni giorno l’usura, le difficoltà decisionali, il deficit di rappresentanza, il gap delle disuguglianze.
Eravamo già all’interno di un cambiamento confuso, fra paura e rabbia. Che in questa battaglia che si proclama di dover Vincere, il virus non sia un altro, imprevedibile anche negli esiti e tutt’altro che occasionale, protagonista?
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