Il racconto di Madelyn Lugli
Patrioti ma di un’altra patria, la risposta ai nazionalismi
Che effetto vi fa vedere una bandiera di un altro paese issata sul balcone di un palazzo davanti al vostro? Al patriottismo bisognerebbe contrapporre non tanto “l’internazionalismo” (che resta una cosa troppo astratta), quanto un patriottismo anomalo, che cioè si rivolge ad altri paesi. Avete presente Svevo che a proposito della Coscienza di Zeno commentò: “È una autobiografia, ma di un altro”? Patrioti, ma di un’altra patria.
In molte case americane è stata esposta in questi mesi – fatto insolito per quel paese – la bandiera ucraina, e ancora oggi, nonostante l’insofferenza di Biden verso Zelensky, in parte scaricato dai media statunitensi dopo le bugie strumentali sul missile in Polonia, quella bandiera campeggia in molte città oltreoceano. Questo patriottismo rivolto a un altro paese nasce negli Stati Uniti con Marcia Davenport, autrice di bestseller e raffinata critica musicale, che nel marzo del 1930 arrivò alla stazione Woodrow Wilson di Praga semplicemente spinta da curiosità (proveniva da una famiglia colta e cosmopolita). Pur non conoscendo una sola parola o persona ceca, si “innamorò” subito di questo stato europeo appena formato. Come leggiamo in un articolo della giovane storica Madelyn Lugli, apparso sulla rivista “Public books”, Marcia ”amava lo spettacolo rituale delle feste paesane, i cauti viaggi per le strade cittadine larghe a malapena per le auto, le chiacchiere echeggianti delle donne nei mercati, persino l’odore .- un ricco composto di fumo di carbone, caffè tostato, birra, maiale affumicato e soffriggere le cipolle – ”.
Nel decennio successivo tornò in Cecoslovacchia quasi ogni anno, accumulando conoscenze, amici, relazioni. Durante la seconda Guerra Mondiale ha convertito il suo amore in un impegno attivo verso il piccolo stato invaso da Hitler, raccogliendo fondi, diffondendo informazioni sulle onde radio americane, etc. Una adesione totale, un coinvolgimento emotivo così intenso da generare un “affair” sentimentale (ahinoi dall’esito tragico) con il ministro degli Esteri cecoslovacco, Jan Masaryk. Sempre la Lugli così commenta: “Spesso pensiamo a quei decenni drammatici che portarono alla seconda Guerra Mondiale come a una sorta di battaglia tra nazionalismo istintivo e ostinato isolamento da un lato, e un universalismo altisonante e un astratto idealismo internazionale dall’altro. La realtà, tuttavia, almeno per la Davenport, era meno binaria. Ha trovato la sua strada nell’impegno internazionale non camminando per le sale della Società delle Nazioni, ma abbracciando l’intimità della vita quotidiana in una nazione straniera. I ricordi di un’esperienza umana condivisa e ideologie politiche universali hanno il loro posto. Ma l’esposizione alle particolarità della vita domestica all’interno delle nazioni può coltivare una prospettiva internazionale”.
Continua Madelyn Lugli: “È degno di nota il fatto che, di fronte a una delle più grandi crisi delle relazioni internazionali dell’ultimo decennio, ci troviamo a ricorrere non solo all’esperienza della diplomazia e al linguaggio universale della pace, ma anche agli strumenti più quotidiani della nazione: bandiere, ricette, e storie locali sulla gente del posto”. La mia generazione ha provato amore per un altro paese, eletto a seconda patria, il Vietnam, vero catalizzatore della nostra rivolta, di cui sventolavamo nei cortei la bandiera con la stella gialla sul fondo rosso (in un’occasione venne issata sul balcone del consolato americano, da un giovane militante che si arrampicò temerariamente). Oggi ho scelto una seconda patria, quella dei curdi, oltre a una – più ovvia – terza patria, e cioè l’Ucraina (con cui solidarizzo senza riserve!). La bandiera curda ha tre colori (giallo che simboleggia la luce, rosso il sangue dei martiri, verde la bellezza del paesaggio) e al centro un sole d’oro ardente che nello zoroastrismo rappresenta la saggezza. Bene, ho eletto a seconda patria il Kurdistan (in cui non sono mai stato e che esiste solo virtualmente: si tratta di un popolo senza terra, senza un vero paese) partecipando ogni tanto alle loro feste e alle loro manifestazioni, apprezzando il loro cibo e ascoltando le loro musiche, oltre che provando immensa simpatia per il leader Ocalan, in cella d’isolamento turca da 22 anni, il “Mandela del Medio Oriente”.
Dall’articolo apprendiamo inoltre che Marcia Davenport non fu certo l’unica negli anni ‘40 ad avere un impegno internazionale che nasceva dall’amore per una piccola nazione. Per alcuni, come l’editore americano Hamilton Fish Armstrong, la Jugoslavia è diventata un luogo di ispirazione e una seconda patria, ispirandogli innumerevoli articoli e saggi. Mentre la scrittrice e giornalista Pearl S.Buck a un certo punto volle adottare la Cina, che non era certo un piccolo paese, ma pure – in quel momento – una nazione povera e ai margini della scena internazionale-. Così conclude la Lugli: “Anche se il nostro mondo di oggi differisce in modo sostanziale da quello di Marcia Davenport, un binario così netto tra il nazionale e l’internazionale non si applicava necessariamente nemmeno in passato. Il fascino istintivo per le intimità della vita nazionale può ancora diventare un mezzo essenziale per creare una visione internazionale”.
Trovo che questo patriottismo appena deviato sia una idea bellissima, quasi utopica, all’altezza della attuale globalizzazione. Provare patriottismo per un paese straniero è, a pensarci bene, qualcosa di eccentrico. Di solito il nostro amore per la patria è per la nostra patria, per la nostra bandiera, e si ferma ai confini nazionali. Quando ci preoccupiamo di guerre o disastri che colpiscono altri paesi, ciò avviene in nome di valori universalistici (tutti apparteniamo alla comune umanità). Ora, l’universalismo è una ideologia nobile, e certamente imprescindibile, ma anche inemotiva. Se tanti americani hanno issato di fronte alle loro case le bandiere ucraine, cosa che non hanno mai fatto prima per nessun altro paese, ciò dimostra un fervore che di solito si associa soltanto alla propria patria territoriale. Quelli che vorrebbero un maggiore impegno internazionale potrebbero scoprire che essere “cittadini globali” è solo una astratta petizione di principio, mentre possiamo diventare cittadini con una seconda, o terza, o quarta madrepatria.
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