Carboni cantava “il mio cuore è allo stop, cuore sotto shock” riferendosi al dolore che accompagna l’esperienza universale della fine di un amore.
Le ricerche scientifiche mettono in luce un aspetto interessante: gli esseri umani temono più il dolore emotivo e sociale rispetto a quello fisico. E le neuroscienze svelano un intreccio tra le ferite dell’anima e quelle del corpo. Il cervello, indifferente alla natura del dolore, si accende nelle stesse regioni quando si tratta di un addio affettivo o di un trauma fisico. La corteccia somatosensoriale secondaria e l’insula dorsale posteriore si attivano, indistintamente, di fronte al cuore spezzato o a una bruciatura fisica. La macchina biologica, così abile nella rigenerazione fisica, si confronta con l’incertezza quando si tratta di curare le ferite che sanguinano nei silenzi di un addio. Dopo una rottura affettiva, il dolore emotivo può scatenare un’angoscia che cerca rifugi oscuri, alimentando la disperazione e spingendo la mente in un labirinto di contraddizioni, speranze ingannevoli e illusioni che offuscano la percezione della realtà. Emergono pensieri dannosi e idealizzanti come “ho perso la fonte della mia felicità, la persona più importante”, dimenticando che la persona più importante siamo e restiamo noi stessi.

Ci autoinganniamo con la convinzione che un encore sia possibile, che rivivere “quello che c’era tra noi” sia alla nostra portata. In modo quasi ossessivo, cerchiamo un reset, vogliamo riavvolgere il nastro della nostra storia. Esiste un’innata via d’uscita neurobiologica da questo garbuglio di tormentose emozioni, che si attiva, però, nel momento esatto in cui accogliamo la fine di una relazione. Perché è solo allora che il cervello comincia ad agire per correggere emozioni e comportamenti disfunzionali, facendoci approdare, superata la negazione, a nuove positive esperienze attraverso l’elaborazione della rabbia, della negoziazione e infine della tristezza, a volte anche intensa, che prelude all’accettazione. Ma un amore per finire deve prima essere iniziato. Amare è una cosa complessa, non è la foto di un diamante postata sui social. Viviamo nell’era della comunicazione istantanea, dove la gratificazione è solo a un clic di distanza.

Siamo ancora pienamente in grado di reggere l’impatto delle frustrazioni narcisistiche, il dolore della solitudine, la rabbia del rifiuto e l’attesa della guarigione, che accompagnano la fine di un amore? Una relazione sentimentale è un viaggio incerto, un percorso che include anche la capacità di lasciare andare chi ha scelto di non camminare più al nostro fianco. Siamo pronti, in una società sempre più impegnata nella ricerca di colpevoli, ad assumerci il rischio di un sentimento che può dileguarsi nel mistero più profondo, che può dissolversi sfuggendo alle parole senza che vi sia colpa? Chi cerca la droga ama l’effetto, non la sostanza. Siamo ancora in grado di intendere e vivere l’amore come incontro autentico, dialogo costante, rispettoso e talora frustrante tra un Tu e un Io, o ci fermiamo più semplicemente e convenientemente all’effetto? Se è l’effetto che amiamo, il Tu finirà per sparire a vantaggio di un Io smisurato. L’altro potrà allora essere ignorato, gettato, sostituito, maltrattato e, nei casi più drammatici, soppresso perché nella relazione non è mai esistito. Si chiedevano i Bee Gees nel 1971 “Come puoi riparare un cuore spezzato? Come puoi impedire alla pioggia di cadere? Dimmi, come puoi impedire al sole di brillare?” e Bruce Springsteen nel ’78 offriva la sua risposta: “Dovrai viverlo ogni giorno, lascia che i cuori spezzati siano il prezzo che devi pagare. Continueremo a insistere finché la chiarezza si farà strada e queste terre desolate cominceranno a trattarci con gentilezza”.

Ma il problema di oggi non sembra essere il cuore spezzato, che guarisce in modo naturale o, se necessario, con qualche terapia. Il problema è il cuore vorace, colmo di pulsioni da soddisfare in relazioni di consumo, incapace di battere nel vuoto della distanza in cui nasce il desiderio, anche dell’altro. Eppure è il desiderio, grande escluso dalla festa della soddisfazione immediata che riempie il nostro presente, a rappresentare la base insostituibile di ogni relazione e riconoscimento tra l’Io e il Tu, gli altri e il mondo. Sarà forse che non abbiamo più bisogno – o non siamo più capaci? – di alzare la testa e guardare alle stelle (sidera, in latino) per orientarci. Ci accontentiamo di mettere la mano in tasca e abbassare lo sguardo sulle mappe dei nostri smartphone!