Edoardo Fallaci era un muratore che a 17 anni si iscrisse al partito socialista, per questo fu anche preso e torturato dalle camicie nere. Nel ’43 entrò nella resistenza ed arruolò anche la sua bambina. Oriana aveva 13 anni, nome di battaglia “Emilia” e portava messaggi ai partigiani passando fra le linee tedesche in bicicletta.

Ma io quando io leggevo nel 1969 i suoi reportage dal Vietnam sull’Europeo, con le splendide foto di Moroldo, tutto questo non lo sapevo. Avevo 10 forse 11 anni, trovavo il settimanale sul comodino di mio padre e lo divoravo, compresi gli articoli di Montanelli.

Anche mio padre era socialista. Aveva guidato l’ammutinamento alla Maddalena, rifiutando di portare le navi ai tedeschi a Genova, consegnandole invece a Salerno alle forze alleate. Poi continuato la resistenza nella Lega Socialista Rivoluzionaria, un gruppo di bordighiani, trotskisti e cani sciolti che si sciolse il 1945.

Ma aveva fatto in tempo a prendersi un colpo di mitra dai tedeschi. Era quasi morto dissanguato e si portava per ricordo questa grossa cicatrice sulla gamba. In sostanza ero figlio anch’io di un eroe. Ma non ci davo troppa importanza.

Leggevo però i libri che mi dava, tanti, ma fu “Il tallone di ferro” che mi spinse nelle fila di Potere Operaio. Mio padre si incazzò di brutto: “La rivoluzione l’abbiamo già fatta, non ti hanno informato? Con questi puoi solo finire in galera”. E così mi iscrissi alla FGCI, credevo di tranquillizzarlo, ma non era così: “Sei diventato comunista? Credi di avere più giustizia rinunciando alla libertà? Non avrai né l’una né l’altra. Coglione!”.

Capii di avergli inferto una ferita, che non si sarebbe mai rimarginata. Ed ho passato molti anni della mia vita a capire perché. Comunque, in quegli anni mi aveva sconvolto la lettura di “Niente e così sia”.

Avevo percepito certo la denuncia dell’orrore assoluto della guerra, ma le pagine della Fallaci sulla strage di My Lai, mi avevano persuaso che gli americani e il mondo Occidentale di cui erano la guida, incarnavano ormai la visione dominatrice, di un capitalismo, che agiva per schiacciare l’anelito di libertà dei popoli poveri ed oppressi, “dannati della terra”.

E così, praticamente ogni sabato, ero entusiasta di partecipare a quei cortei antiamericani che muovevano da piazza Garibaldi e percorrevano tutto il Rettifilo, scandendo slogan contro gli Usa e in favore dei Vietcong. Avevo 13-14 anni e sentivo di stare dalla parte giusta della storia. Al mondo c’erano i buoni e i cattivi.

Ed io avevo scelto inequivocabilmente i buoni. Mi sarei battuto con tutte le mie forze perché i forti non fossero riusciti a opprimere, brutalizzare, dominare e sconfiggere i deboli. Bisognava solo avere pazienza, non demordere e la “talpa” avrebbe scavato bene, fino a minare le fondamenta di quel mondo fintamente liberale, fatto in realtà di “libere belve”, come diceva il Ché.

Bisognava lottare, attendere il momento giusto e il capitalismo sarebbe crollato, del resto era solo “un gigante dai piedi di argilla”, come diceva Mao. Ma il momento clou delle manifestazioni arrivava quando si raggiungeva lo scalone dell’Università.

Sui gradini erano assiepati centinaia di studenti e professori, che scandivano slogan, col pugno chiuso alzato ritmicamente, ripetuti, seguendo un perfetto spartito, dai vari segmenti del corteo che sfilavano davanti. Era un momento che aveva qualcosa di mistico.

Persino più intenso dei cori della mia infanzia nell’azione cattolica. Era la comunione di migliaia di cuori, che battevano all’unisono, scandendo il ritmo e l’armonia del bene, della giustizia, dell’amore persino.

E noi ragazzini, appena entrati alle scuole superiori, tecnici, liceali, artistici, professionali, provenienti da ogni parte della città e da ogni ceto sociale, davanti agli universitari ricevevamo una conferma definitiva, un sugello, una certificazione, vorrei dire ufficiale, che eravamo dalla parte giusta.

Non c’era solo la rabbia e l’ardore di giovani scapestrati, dalla nostra parte c’erano i grandi, gli adulti, i sapienti, gli intellettuali. E lo stesso accadeva quando davanti all’università passavano gli striscioni delle fabbriche, con al seguito migliaia di operai, che in gran parte non avevano studiato, ma vedevano plasticamente, i rappresentanti di quella “cultura”, di cui erano sprovvisti, impegnati nella stessa battaglia: “Operai studenti uniti nella lotta”.

Chi di noi avrebbe pensato allora che eravamo gli utili idioti di regimi criminali, quanto e più del nazismo, che accendevano, ovunque, “mille fuochi di guerriglia” per soffocare questa sublime scoperta della storia: la democrazia, il pluralismo, la libertà.

Chi di noi avrebbe mai pensato che il nostro movimento pacifista, lautamente pagato dai sovietici, era solo una quinta colonna all’opera (solo) in Occidente, per fornire uno strumento alle tirannie, finalizzato a indebolire e dividere il mondo libero?

Eppure gli orrori dello stalinismo erano già venuti alla luce, la repressione criminale dei paesi dell’Est aveva mostrato il suo orribile volto, e i massacri della rivoluzione culturale in Cina, trapelavano, c’era qualcuno che li testimoniava.

Ma vi era anche un folto stuolo di intellettuali, forse largamente maggioritario, che agiva per negare, per nascondere, per occultare, potrei stendere una lista lunga come un elenco telefonico. Voglio citare solo Sartre.

Come giudicava il socialismo reale, nelle sue lettere private? “È una prigione, di oppressione e miseria, ma non lo dobbiamo dire, altrimenti le masse perdono la speranza nel socialismo”. Ecco tutto.

Che c’entra questo con le tragedie del presente? Bene, è solo la naturale, inerziale, prosecuzione di quella logica. Perché parti ampie e spesso “egemoni” del mondo culturale, sono dalla parte di Putin, di Hamas, degli Ayatollah, di Maduro, della Corea del Nord, di Cuba, del regime cinese? Semplicemente perché non hanno ancora digerito il fallimento del comunismo e la vittoria inequivocabile della democrazia liberale.

Un successo non “ideologico” ma tecnico: si vive di più, si vive meglio, c’è più eguaglianza (fra i sessi, fra i generi, fra i ceti sociali, fra le etnie), si è più liberi, più istruiti, si mangia ogni giorno, si professa la religione che si vuole, si vota il partito che più ti piace, si cambia il governo quando non ottiene consenso, c’è una stampa libera, ci sono mille stazioni televisive di ogni stile e orientamento, si ha diritto alla difesa e a un processo trasparente davanti ad un giudice terzo, ci si iscrive al sindacato che si vuole ecc. Questi sono i dati.

Ma per ammetterlo, molti, venerati e cattivi maestri, (non parlo di quelli in malafede) in Italia e nell’intero Occidente, dovrebbero riconoscere a sé stessi di aver passato la vita a pensare a teorizzare, a insegnare un cumulo di sciocchezze e di doverne rendere conto ai loro allievi, ai loro figli e discepoli, che, ispirati da quelle “visioni”, oggi assaltano le sedi accademiche e proibiscono ai professori ed agli studenti ebrei di entrare, di parlare. Di nuovo, proprio come facevano quei fascisti che credono di combattere, ma dei quali hanno semplicemente preso il posto.

Luigi Caramiello

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