Dopo avere saputo dei droni e dei missili partiti dall’Iran e diretti contro Israele non sono riuscito a dormire – suppongo di non essere stato il solo – perché pensavo che forse sarebbe scoppiata una guerra mondiale. Personalmente, la cosa mi spaventa relativamente.

Ho raggiunto un’età in cui gran parte della vita è passata, e sono stato fortunato. Nato nel 1948, non sono mai stato direttamente coinvolto in una guerra e ho visto il mio Paese crescere economicamente negli anni. Ma ho discendenti che amo, tengo molto ai miei studenti, ho anche la fortuna di avere amici giovani, tutte persone che non vorrei vedere nel bel mezzo di una guerra mondiale.

Tuttavia, non è solo questo attaccamento personale che mi coinvolge e mi preoccupa. Bene o male, ho passato la vita a occuparmi di filosofia e di teoria politica, e in tutto questo periodo sono sempre partito da due punti fermi: considerare la liberal-democrazia il migliore dei regimi politici che avevo conosciuto e auspicare l’affermarsi progressivo di quella che Kant chiamava una “pace perpetua”.

In fondo se, come ho detto, sono stato fortunato lo devo al fatto di avere vissuto in un paese liberal-democratico come l’Italia e di avere goduto della pace in tutti questi anni. Il problema oggi – almeno per come la vedo io – è quindi duplice: la fiducia generale nella liberal-democrazia è molto scemata, tanto per usare un understatement, e la guerra è vicina. Per cui, questa congiunzione – oltre al timore che una guerra mondiale naturalmente crea – mi crea sconcerto e provoca sconforto.

Anche perché, tutto sommato, la crisi della liberal-democrazia e la guerra possibile non sono due fenomeni indipendenti. C’è anzi, per quel che credo, un profondo legame tra loro. Perlomeno, è quello che cerco di argomentare in questo articolo, consapevole che la complessità del tema implica la difficoltà di potere offrire argomenti conclusivi in materia. Ci sono comunque due argomenti che possono legare liberal-democrazia e pace.

Entrambi sono controversi ma interessanti. Per il primo dei due argomenti in questione, il legame di cui parlo è diretto. La tesi centrale dice che le liberal-democrazie favoriscono la pace. Questo è vero perlomeno in un senso: praticamente, non ci sono guerre importanti che vedano le liberal-democrazie confrontarsi come nemici. Ovviamente, le liberal-democrazie hanno combattuto molte guerre, alcune delle quali chiaramente ingiuste (per esempio Iraq 2003). Ma non le hanno mai combattute, tranne esempi minori e discutibili, contro altre liberal-democrazie. Da questo fatto, si può dedurre una sorta di piccolo teorema o perlomeno un auspicio: la diffusione globale della liberal-democrazia porterebbe vicino a quella pace perpetua di cui dicevo prima. Naturalmente, dovrebbe trattarsi di una diffusione per così dire spontanea della liberal-democrazia, e non di un’imposizione di questo regime in popoli e paesi refrattari.

Il secondo argomento è meno diretto e impone una riflessione su che cosa significa pensare la guerra. La maggior parte delle opinioni che troviamo in materia sul web, in tv e sui giornali – ma anche al bar – sono ispirate a tre tipi di posizioni: punti di vista esplicitamente partigiani, versioni più o meno informate del cosiddetto realismo politico, forme di pacifismo assoluto. Evito di parlare della posizione partigiana, perché – anche se è comune – intellettualmente non è molto interessante. Il realismo politico, invece, non solo esprime una posizione interessante, ma direi che alcuni dei suoi aspetti sono necessari in ogni valutazione seria della guerra. Detto in breve, il realismo politico parte da due assiomi.

Secondo il primo dei due, i soggetti della politica internazionale sono solo gli stati, che sono come scatole nere nel senso che per esempio non sappiamo quale sia la natura del loro regime politico interno. E che inoltre hanno una sola permanente motivazione ad agire, quella che una volta si chiamava “ragion di stato”, che li porta a essere massimizzatori seriali dei loro interessi e del loro potere. Su questi assiomi, il realista ci raccomanda di guardare con attenzione alle forze in campo, del tipo quante armi un Paese ha a disposizione, quanti uomini etc… Tutte cose queste che evidentemente non si possono trascurare.

Quale è il limite più evidente del realismo? È in sostanza quello che non ci spiega perché dovremmo -ammesso che dovremmo- stare da una parte o dall’altra di un eventuale conflitto. “Questo e quello per me parti sono”, potrebbe essere il suo motto. Ma un indifferentismo del genere non aiuta a pensare la guerra. Tra Hitler e i suoi avversari non si poteva e doveva essere neutrali. I limiti del realismo fanno capire anche quelli del pacifismo assoluto. Perché se è vero che tutte le persone mentalmente sane sono a favore della pace, non è vero che tutte le guerre sono eguali tra loro. Alcune guerre possono essere “giuste”.

La teoria della guerra giusta da Sant’Agostino in poi si rivolge proprio ai pacifisti per dire loro che talvolta combattere non è immorale. Per esempio, nel caso della resistenza contro i barbari invasori di quel tempo. O contro Hitler, di cui si è detto. Assumendo di essere d’accordo su quest’ultimo punto, cioè che in qualche occasione è lecito abbandonare il nostro istintivo pacifismo per buone ragioni, allora diventa assai rilevante decidere quali sono queste buone ragioni. Perché è proprio qui che ci si allontana dal realismo e la differenza di opinioni può diventare radicale. Io sostengo che una delle ragioni che può rendere una guerra sempre odiosa ma almeno in parte giusta consiste nella difesa della liberal-democrazia.

La simmetria tra le parti, che accomuna realisti e pacifisti, è un dogma da sfatare. Se ho qualche ragione dalla mia, allora si può sostenere che i regimi di Putin, Stalin, Hitler e Mussolini sono peggio di quelli degli alleati nel 1940 e di quelli attuali di per esempio Gran Bretagna, Italia, Francia e Stati Uniti. E che, nel malaugurato caso di conflitto, noi non possiamo e dobbiamo essere neutrali – come pure vorrebbero realisti e pacifisti – ma schierarci a favore dei secondi. Con i costi, i rischi e le conseguenze del caso. Non posso evitare di concludere l’articolo senza sottolinearne un limite. Parlare di guerra in punta di teoria mentre la gente muore sul campo è complicato e può sembrare inopportuno. Tuttavia, lasciare andare le cose senza riflettere mi sembra anche peggio.

Sebastiano Maffettone

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