L'incubo degli Stati Uniti
Iran, l’attacco è imminente. Netanyahu pronto al pugno duro e gli Usa temono l’escalation
La possibile reazione iraniana al raid di Damasco è l’incubo di Israele e degli Stati Uniti. Ieri nello Stato ebraico è arrivato il generale Erik Kurilla, capo di Centcom, il comando Usa che gestisce le operazioni in Medio Oriente. I comandi statunitensi sono molto preoccupati di una possibile reazione iraniana in territorio israeliano. E nonostante le divergenze manifestate tra i funzionari Usa e israeliani per la guerra nella Striscia di Gaza, dall’amministrazione Biden si vuole far capire la piena sinergia con il governo di Benjamin Netanyahu per un eventuale contro Israele.
Lo schiaffo di Teheran
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in conferenza stampa con il premier giapponese Fumio Kishida, ha parlato chiaro: “Come ho detto a Netanyahu, il nostro impegno per la sicurezza di Israele contro queste minacce provenienti dall’Iran e dai suoi alleati è ferreo”. E in queste ore l’intelligence americana sta studiando tutti i possibili scenari, cercando di capire fino a che punto possa spingersi l’Iran con la risposta promessa per il raid a Damasco. Una mossa che sembra avere trasformato definitivamente il conflitto nella Striscia in uno dei tanti teatri in cui si combatte la sfida tra Iran e Israele. “Viviamo momenti difficili. Siamo nel mezzo della guerra a Gaza, che sta continuando con forza mentre non risparmiamo sforzi per riportare a casa i nostri ostaggi”, ha detto Netanyahu incontrando i militari delle Israel defense forces nella base di Tel Nof. “Siamo anche preparati per sfide in altri settori. Abbiamo una regola semplice: ovunque ci faranno male, faremo male a loro. Siamo pronti a soddisfare tutti i bisogni di sicurezza dello Stato di Israele, sia di difesa, sia di offesa”, ha poi concluso il premier dello Stato ebraico. E ora si cerca di capire quando, dove e come Teheran possa dare il famoso “schiaffo” minacciato dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.
Un segnale di moderazione
Mentre da Washington, Biden sta cercando in ogni modo di far sì che l’Iran abbassi la tensione o si convinca a colpire in modo da non provocare un’escalation regionale che rischia di diventare incontrollabile. Secondo le fonti sentite dai media internazionali, il governo americano avrebbe contattato diversi ministri degli Esteri del Medio Oriente per inviare alla Repubblica islamica la richiesta di evitare lo scontro o di non aumentare la tensione. In questi giorni, in effetti, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, ha avuto diverse discussioni con gli omologhi regionali, in particolare di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Qatar e Turchia. Si è mossa anche la Germania, il cui capo della diplomazia, Annalena Baerbock, ha contattato l’omologo iraniano dicendo che “tutti gli attori della regione sono ora chiamati ad agire in modo responsabile e ad esercitare moderazione”. Mentre la Russia, legata all’Iran da una partnership strategica sempre più solida (come dimostrato dai droni che martellano l’Ucraina), ha chiesto a tutti i Paesi della regione a dare un segnale di moderazione. E pur ribadendo, per bocca del portavoce Dmitry Peskov, la condanna per il bombardamento contro l’ufficio consolare iraniano in Siria, il Cremlino vuole fare il moderato in questa crisi.
Le trattative ferme
Ma l’impressione, nonostante gli sforzi diplomatici, è che Teheran non sia intenzionata a cedere. O comunque che non possa al momento mostrarsi arrendevole anche nei riguardi delle proprie milizie. Lo dimostra anche il messaggio scritto sul profilo X della missione iraniana alle Nazioni Unite, che appare una curiosa giustificazione alla risposta attesa (e temuta) da Israele e Stati Uniti. “Se il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avesse condannato il riprovevole atto di aggressione del regime sionista nei confronti delle nostre sedi diplomatiche a Damasco, e successivamente avesse assicurato alla giustizia i suoi autori, l’imperativo per l’Iran di punire questo regime canaglia avrebbe potuto essere evitato”, ha scritto la missione sui social. Quasi a dire che non esiste alternativa. L’allerta resta dunque massima, soprattutto per la fine delle celebrazioni dell’Eid al Fitr, che segna la conclusione del Ramadan. E la paura della ritorsione iraniana va di pari passo con lo stallo nei negoziati tra Israele e Hamas: elemento cruciale per questa guerra-ombra tra Iran e Stato ebraico. Dopo il raid nella striscia di Gaza con cui sono stati uccisi tre figli di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, le trattative mediate da Usa, Qatar ed Egitto appaiono ferme. Il leader della milizia palestinese ha fatto capire che il “martirio” dei suoi tre figli, tutti e tre membri attivi dell’ala militare di Hamas, non avrebbe inciso sulle discussioni per la tregua e la liberazione degli ostaggi.
Il messaggio del Consiglio di Sicurezza Onu
Tuttavia è possibile che Haniyeh sfrutti il raid per congelare il negoziato. Anche perché il timore che aleggia sul possibile accordo è che il gruppo non sia in grado di soddisfare la principale condizione posta da Israele: riavere 40 ostaggi. Per le fonti ascoltate dal Wall Street Journal, è possibile che la maggior parte delle persone rapite il 7 ottobre, e che si considera ancora nelle mani di Hamas, sia in realtà morta. Ed è probabile che molti siano deceduti o nei raid israeliani o per le ferite riportate nel sequestro o per malattia. Il problema, per Israele così come per i negoziatori, è essenziale. La liberazione degli ostaggi è uno dei cardini della guerra di Netanyahu, se non l’obiettivo prioritario. Ma è anche uno dei più grandi motivi di critica nei confronti del governo israeliano, con una mobilitazione continua dell’opinione pubblica che chiede da mesi la fine della prigionia e accusa lo stesso premier di avere rappresentato un ostacolo al raggiungimento di un accordo. Un’intesa che servirebbe anche per sbloccare l’arrivo degli aiuti nella Striscia di Gaza. Il ministro della difesa, Yoav Gallant, ha assicurato che il suo Paese sta facendo il possibile per aumentare “drasticamente” gli aiuti per l’exclave palestinese, mentre a Cipro continuano ad arrivare i beni di prima necessità e il cibo da inviare nella Striscia una volta riattivato il lavoro delle navi delle ong. Ieri alcuni vertici delle Idf hanno incontrato i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che operano a Gaza per migliorare il coordinamento in vista delle operazioni umanitarie. A maggior ragione se dovesse arrivare il via libera per l’operazione via terra a Rafah. Ma il Consiglio di Sicurezza Onu ieri ha inviato un messaggio chiaro: “Si dovrebbe fare di più” per aiutare i civili a Gaza.
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