Ha ragione Claudio Velardi quando si chiede se Israele ha ancora diritto a una narrazione che non sia quella che lo schiaccia sul banco dell’eterno imputato, colpevole di tutti i mali della storia passata, presente e futura. Colpisce, e non in positivo, la domanda, celata in forma di editoriale, su un noto periodico cattolico che retoricamente chiede a “tutti gli ebrei”: come è possibile che un popolo perseguitato per secoli non faccia una piega nel vestire i panni del persecutore?

Il tono è quello inquisitorio e si è chiamati a rispondere non dei fatti ma di una colpa a prescindere per il quale il processo stesso è la semplice dimostrazione pubblica di un’evidenza stabilita a priori. La domanda è un esercizio retorico per vedere fino a che punto può e deve spingersi il livello di indignazione e dunque lo stigma da affibbiare, senza indugi, non a un governo, non a un Paese, generalizzazione già di per sé dozzinale, ma a un intero popolo, sparso per il mondo. Colpevole per nascita. Un moralismo che dà i brividi ma che, purtroppo, non si ferma solo all’invettiva censoria. È una febbre antica che ha contagiato tutto l’Occidente che ormai vive di polarizzazioni, condanne sommarie, analisi senza fatti, opinionismo a buon mercato sbandierato a mezzo stampa un giorno si e l’altro pure. È la malattia del consenso aggravata dal morbo dell’ideologia. Un’ortoprassi e una prossemica che non fanno prigionieri. È di questi giorni la notizia del licenziamento in tronco di un conduttore di una televisione belga, LN24, “reo” di aver sollevato dubbi in diretta sulle martellanti accuse a senso unico nei confronti di Israele. Una volta si parlava di diritto al confronto e di libertà di informazione. Oggi si paga con la carriera e, in qualche caso non solo con quella. Il tema è sempre il solito, la libertà.

In Occidente ci si riempie la bocca con le parole democrazia, diritto, inclusione, uguaglianza e libertà appunto. Ma purtroppo il cortocircuito culturale e psicologico delle odierne società “libere” è la negazione in pratica di questi capisaldi che sono l’abc del pensiero liberale. No, oggi vince la demagogia, la propaganda e l’appiattimento su un umanitarismo sommario che impedisce ogni analisi vera e impone di schierarsi sempre. Viviamo nel trionfo di un emotivismo strumentalizzato per interesse per diventare la giustificazione morale, la “moralina” di cui parlava Nietzsche, la ragione fondante di un’ideologia intransigente che fa un mischione di spinte millenaristiche e ottuse che vanno dall’ambiente ai diritti, dalle rivendicazioni identitarie trattate come prodotti da scaffale, alle “allegre” danze pro-Pal che hanno colorato i Pride continentali, all’immancabile e immarcescibile condanna indignata del ritorno dell’onda nera pre-post-super fascista, non si capisce bene, sempre utile alla bisogna.

Ci vuole coraggio e una quintupla dose di lucidità per non schierarsi ogni volta, per non cedere alla logica della caccia all’untore, alla gara tra moralisti da salotto e da tastiera che usano i social media come clave per emettere sentenze e bollare il dissenso come tradimento. La libertà appunto. Qualcosa che si dava per acquisito, per scontato. Oggi ci si accontenta delle narrazioni che hanno sostituito il pensiero, la complessità. Per cui ci sono i “cattivi” da una parte e i sempre buoni da quell’altra. E allora tutti a pancia a terra per condannare il ruvido Trump e il “massacratore di bambini” Netanyahu e poi in piazza a difendere i noti libertari ayatollah o il simpatico, si fa per dire, presidente russo. Si vive di questi cortocircuiti. E allora, la domanda, ancora una volta è questa: possiamo oggi, con sincerità, parlare ancora di libertà o moriremo di ideologie a buon mercato? Qualcuno pensa, cocciutamente che si, ancora si può. E difende questo spazio di immaginazione e confronto, questa ricerca di verità a proprio rischio e pericolo, con le unghie e con i denti. Qualcuno ancora ci crede. Noi.