Marco Bentivogli, ex leader dei metalmeccanici Cisl, esperto di innovazione industriale, fino al 2021 fra i 30 esperti nominati dal Mise per la pianificazione di una strategia nazionale per gestire l’A.I. e Co-fondatore di Base Italia.

Ha ancora senso festeggiare il primo maggio?
«La celebrazione del Primo Maggio offre l’opportunità di riaffermare l’importanza della solidarietà tra lavoratori, il valore del lavoro dignitoso e la necessità di politiche che promuovano la giustizia sociale e l’equità. È un giorno in cui si riconosce l’importanza di ogni lavoratrice e di ogni lavoratore e si celebra il loro contributo allo sviluppo della società. È una festa che deve coinvolgere tutti: da chi non ha lavoro a chi ha un lavoro gravoso, insicuro o poco pagato, a chi lavora nei giorni di festa. La retorica della lagna non aiuta a migliorare le condizioni di lavoro. Non bisogna mai dimenticarsi di battersi per il lavoro che fa fi orire la persona, che rende la cittadinanza piena e che da forza alla democrazia. Per questo è importante non dimenticare di rendergli onore, festeggiandolo».

Da sindacalista ha sempre spinto nel guardare con fiducia all’innovazione. Ne è ancora convinto, anche alla luce delle ultime stime dell’impatto dell’Intelligenza Artificiale nel lavoro?
«Ormai le big tech (e non solo) licenziano migliaia di impiegati dando la colpa all’introduzione dell’Intelligenza Artificiale. Sono bufale ciclopiche, licenziano per scelte organizzative di riduzione dei costi che con l’IA hanno poco a che vedere. Hanno buon gioco perché quando si indica un responsabile astratto ci si sente quasi liberati dalla necessità di approfondire. Le aziende che non innovano sono insicure, perdono occupazione e pagano meno i lavoratori. Un atteggiamento di ingenuo ottimismo non ha senso, ma il pessimismo cosmico fa leva sulla paura ed è il vero disastro. Lo ha capito anche chi fa affari con l’innovazione e in particolare con l’IA: un po’ di paura, paradossalmente fa vendere di più. La paura però paralizza ogni tentativo di cultura d’anticipo, l’unica in grado di minimizzare i rischi e accrescere per tutti le opportunità. Il lavoro ha un futuro che è in larga parte un foglio bianco ancora da scrivere e chi si attarda in vecchie categorie e battaglie ideologiche si occupa di garanzie sempre più ossidate e di una minoranza sempre più ridotta di persone. Bisogna decidere se iniziare a scrivere su quel foglio bianco le nuove architetture del lavoro affinché sia dignitoso e significativo per la condizione umana».

Cosa rimprovera al sindacato?
«Il sindacato fa la sua parte, quando punta sulle relazioni industriali e all’innovazione fa cose ancora molto significative. Quando tenta di surrogare l’opposizione politica o la difesa corporativa dei più garantiti perde forza reale. Poi c’è un bilancio da fare: a cosa è servito parlare sempre e ovunque per i due terzi del tempo di pensioni? Parlare di Legge Fornero anche con gli under 50 che andranno in pensione con il sistema contributivo, con pensioni più basse e molto più tardi è ancora più grave. L’Italia non è un paese per giovani ma neanche per vecchi. È un paradiso solo per gli anziani benestanti e in ottima salute. Con le persone bisogna costruire una prospettiva di partecipazione e di un lavoro migliore. La cosa paradossale è che nuove competenze, organizzazione del lavoro e tecnologia in molti casi innovano il lavoro, in meglio, lontano da qualsiasi rivendicazione sindacale. Serve un sindacato che torni in campo spingendo sulle riforme che modernizzino il paese».

Quale può essere il ruolo della politica e della rappresentanza in generale nel nuovo mondo del lavoro?
«Continuare a “guardare le spalle” alle persone non basta. Bisogna promuovere la persona nel lavoro, non solo proteggerla. Accanto alla Job protection serve fare rappresentanza diventando uno skill developer. Le competenze vanno generate, difese, aggiornate all’interno di un diritto soggettivo della persona. Lo abbiamo fatto nel 2016 nel Contratto dei Metalmeccanici, bisogna andare molto più speditamente. La politica può dare equilibrio all’innovazione, come dicono Daron Acemoglu e Simon Johnson nel loro ultimo libro. L’Italia ha un problema ulteriore, ci sono temi da approfondire, sfide da affrontare, battaglie che non possono essere solo citate nel vecchio elenco della spesa. Si crede che sia sufficiente aggiungere la parola “sostenibile” alle vecchie parole per farle nuove come per magia. Il rischio vero è essere marginalizzati dall’innovazione, non esserne protagonisti. Le disuguaglianze ripetute nel bla-bla sono in realtà sempre più il frutto della polarizzazione tra chi è coinvolto nella trasformazione per… e chi resta a terra. La taglia dimensionale media delle nostre aziende è troppo piccola o ci sarà la capacità di aggregarsi in nuovi ecosistemi innovativi o si sparisce».

Quali sono i lavori più a rischio? E cosa consiglierebbe a una ragazza che sta studiando?
«L’Italia è ancora debolissima nell’investimento sulle materie Stem (scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche). Una puntata della rivoluzione delle competenze che abbiamo pressoché saltato. È sempre più chiara oggi la necessità di integrazione delle competenze tecniche con quelle umane. Una bravissima data analyst se ha studiato le tecniche della data science troverà facilmente un lavoro ma sarà ancora più forte se disporrà di una buona base di competenze umanistiche. Come dice l’ottimo Franco Amicucci, forse bisognerebbe superare la compartimentazione o quanto meno armonizzare i saperi tecnici e saperi umanistici all’interno di percorsi SteAm. Bisogna nutrire sempre le nostre due menti. Purtroppo il nostro sistema di istruzione aiuta invece a compartimentare».

Quanto conta la demografia tra le diverse transizioni che riguardano il lavoro. È un rischio così imponente?
«L’invecchiamento della popolazione, il Silver Tsunami Italiano (come lo ha definito il New York Times) ha messo ancora più in evidenza l’orizzonte troppo breve delle politiche degli ultimi decenni e in larga parte la loro inefficacia. Il default demografico è un default economico, industriale, sociale, umano. Ci obbliga a riconoscere la nostra parzialità e a costruire progetti di lungo periodo e respiro. Ci obbliga ad un uso sapiente delle tecnologie e a guardare con più realismo ai fenomeni migratori. Ci obbliga a dare più valore (e più spazio) alle nuove generazioni perché saranno ancora più preziose».

Arianna Foni

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