«Di tanto il primo giudice ne ha dato debito conto». Non l’ha detto il ministro degli Esteri. Lo ha scritto la corte di appello di Napoli in una sentenza di qualche settimana fa. E si potrebbe fare spallucce davanti a quest’opera di macellazione della nostra lingua, considerando che infine non c’è da stupirsene in un Paese dove il capo del governo si affatica senza risultato a mettere insieme una frase mondata dagli strafalcioni che, per dirla con lui, gli “sgorgano naturali”, o dove il direttore di un importante quotidiano se ne esce con “proseguio”, e su su fino ai comunicati della Presidenza della Repubblica allegramente maculati da sfondoni che manderebbero alla bocciatura già un undicenne.

Per quale motivo, dunque, dovremmo pretendere che un giudice sia educato a scrivere anche solo in italiano appena corretto (in buon italiano, figurarsi) quando il più desolante analfabetismo perturba in ogni sede e anche nelle più alte il discorso pubblico? E te lo spiego io, il motivo. Perché così un politico, magari anche dotato di responsabilità di governo, come il responsabile di una testata giornalistica, che dopotutto dovrebbe portar cultura, infine fan solo vergogna quando si esibiscono nel loro rapporto disturbato con la decenza sintattica: mentre un giudice lasciato libero di abbandonarsi all’oscenità di quelle sgrammaticature fa molto peggio. Perché le cose che scrive servono per giudicare le persone. Per arrestare la libertà delle persone. Per aggredire il patrimonio delle persone. E tutto questo non sempre giustamente, visto che le parole di un giudice ben possono formare una sentenza sbagliata anche nel merito, oltre che nell’uso dell’italiano.

A chi sia provvisto di tanto potere non dovrebbe essere consentito di scrivere in quel modo: perché un potere che si esprime in quel modo cessa di essere rispettabile, diventa ripugnante e assomiglia a quello del boia, un disgraziato che non ha bisogno di eloquio per tagliare una testa. Ma ho detto male. Impedire di scrivere in quel modo a chi ha quel potere non si può, salvo disporre che se ne torni sui banchi di scuola prima di ricominciare a dare ordini in nome del popolo italiano. Si potrebbe invece impedire a chi scrive in quel modo di assumere quel potere. Affinché una decisione di giustizia – questa cosa grave e implicante, capace di infierire irrimediabilmente su beni delicati – si imponga almeno con pulizia verbale anziché con la brutalità invereconda dell’apoftegma asinesco. Dice: «Ma quanto strepito per un errore di italiano! Sarà un caso isolato, no?». Ora, a parte il fatto che non è per nulla un caso isolato, e anzi nelle carte giudiziarie ce n’è a strafottere di roba simile, domando: vorresti pure che fosse la regola?

Iuri Maria Prado

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