La longa manus dello Stato
Quando il ministero cambia nome e anche la sua natura. Le nuove riforme della politica solo a proprio beneficio
E se il “mistero del ministero”, come titolava ieri questo giornale, fosse meno celato di quello che appare? E, un po’ come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, sia lì davanti agli occhi di tutti, ovvero negli stessi termini “ministero della Cultura” e “MAXXI”? Il primo – acronimo MIC – è il nome reintrodotto per il dicastero, in un battibaleno, dal ministro Franceschini nel 2017. Nome che, in barba all’antifascismo militante, risale addirittura al Ventennio, quello del mai dimenticato, più per i meriti che i demeriti, del ministro Bottai.
La storia
Prima di Franceschini mai nessuno aveva avuto il coraggio, e il potere, di osare tanto. Quando, nel Dopoguerra, il governo Moro (DC-PRI) decise nel ‘74 di ricreare un ministero ad hoc, un “gigante” della prima Repubblica come Giovanni Spadolini e il Parlamento ci misero più di un anno per trovarne il nome. E così il neonato ministero, figlio di una costola del dicastero dell’Istruzione, fu battezzato “per i Beni Culturali e Ambientali”. In quanto allora si riteneva improprio che lo Stato dovesse solo tutelare i suoi beni e non potesse “fare” cultura, cosa che avevano fatto, e facevano, i regimi autoritari eccezion fatta per la Grandeur, la Francia di Mitterrand. Successivamente vari cambiamenti, MIBAC (Beni e Attività Culturali), MIBACT (Beni e Attività Culturali e Turismo).
La longa manus
Ma ecco che nel 2017 il ministero “perde” un pezzo, il Turismo, e diventa finalmente MIC: ministero della Cultura. Perde un pezzo, ma acquisisce competenze prima inimmaginabili, passando a essere non una amministrazione “per” i Beni culturali ma una amministrazione che incide direttamente sulla cultura del paese. Tutta la cultura, con direzioni generali che spaziano dal cinema alla creatività, dall’archeologia al paesaggio, con competenze addirittura nella rigenerazione urbana. Lo Stato interviene con la propria longa manus su tutto, ampliando notevolmente il proprio budget che passa da 1,5 miliardi di euro del 2016 a oltre 2 miliardi degli ultimi anni. Fondi per investimenti, spesa corrente e un ventaglio di contributi per il sostegno di interi settori. Non ultimo il cinema, con l’aberrante meccanismo automatico del Tax credit, i cui effetti distorsivi sono oramai noti a tutti. Neanche un politico potente ed espressione di un regime totalitario come Bottai avrebbe potuto fare tanto!
Oramai la famosa frase di Tremonti, “con la cultura non si mangia”, è un lontano ricordo. Come lo è la storia del MAXXI, il Museo delle Arti del XXI secolo. Nato a fine del ‘900 per “musealizzare” l’arte di un secolo che ancora doveva nascere. Una iperbole logica e pratica. Neanche la Grandeur era mai riuscita a fare tanto con il famoso Beaubourg, concepito, con il grandioso progetto di Renzo Piano, come macchina per produrre cultura. Mentre oggi la cultura la produce Banksy sui muri delle strade del mondo.
Le nuove riforme della politica solo a proprio beneficio
E, per la sopravvivenza del MAXXI, museo di sé stesso, il ministero ha ritenuto (dopo l’ingentissimo investimento per la realizzazione del progetto di Zaha Hadid, l’opera più costosa per metri quadrati mai realizzata in Italia, ma già oggetto di un restauro conservativo a soli pochi anni dall’inaugurazione) di costituire una specifica Fondazione i cui fondi sono alimentati annualmente dalle casse dello Stato. E quindi la poltrona di presidente è oggetto di spoil system tra destra e sinistra. Miserie dell’Italia di oggi, dove la politica, insieme a nuovi slogan, concepisce le nuove riforme solo a proprio beneficio.
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