C’è un’amica di Yasmina Reza, l’autrice di “La vita normale” (Adelphi, traduzione di Davide Tortorella), che quando vede una coppia baciarsi abbassa gli occhi. Non ne può fare a meno. Non riesce a guardare il bacio. Questa amica, “J”, è medica, abbastanza solitaria, ha avuto due matrimoni senza figli, qualche amante. È una donna normale che non riesce a non abbassare gli occhi di fronte a due che si baciano. Perché, non ci viene detto. Si intuisce che in amore le sia andato tutto male. Basta, tutto qui. Minimale? Certo. Eppure è gigantesco, come i misteri della “vita normale”: dov’è il confine tra l’infinitamente piccolo, quello di tutte queste storielline vere, e l’infinitamente grande che le medesime storielline evocano come significato? E come stabilire dove finisce il normale e inizia l’anormale, cosa separa davvero il “normale” dal “mostruoso”? Nulla, sembra suggerire l’autrice.

La violenza, la rimozione, la follia non vivono ai margini della vita ordinaria, ma coincidono con essa, la attraversano. Dietro queste minute storie raccolte per lo più nei tribunali di Francia, ove sfilano figure e figurette banali più o meno condannevoli (ma qui si spalanca un altro ginepraio, quello della Verità), Reza racconta ancora una volta il disastro generale («Il Dio del massacro» da cui «Carnage», ricordate il film?) di un’umanità dolente e insieme aspra, affronta con la lanterna di Diogene l’indefinibilità e gli interrogativi che erano anche in “Serge“, bellissimo suo romanzo del 2022, e in fondo in tutta la sua opera. Che è un’opera letteraria in senso stretto filosofica, mirante al cuore della tragedia umana, resa con finissima attenzione ai dettagli.

Qui Reza va in giro per tribunali per cogliere quel qualcosa che gli atti processuali non contengono, uno sguardo dell’imputato, un moto d’impazienza degli avvocati, una qualche nota dissonante nelle deposizioni dei testimoni: anche quando la vicenda, perlopiù scabrosa, o infame o tutt’e due, è chiarissima e in teoria c’è poco da discutere. E però c’è sempre qualcosa che sfugge. Viene in mente il grande pianista Keith Jarrett quando, parlando di Miles Davis, diceva che tra una nota e l’altra esiste qualcosa che nel disco non c’è: ecco, qui è la stessa cosa, è letteratura che evoca quel che non si vede. Si pone un interrogativo anche infinitesimale sul perché quella certa cosa sia avvenuta: come mai il signor Louette, un ometto qualunque, non è intervenuto quando l’autista dell’autobus ha causato davanti a lui la morte di un povero clochard? Perché «una mattina di novembre Fabienne Kabou è partita da Saint-Mandé con la figlia Adélaïde, di quindici mesi, alla volta di Berck-sur-mer» e poi la sera «quando la marea sale» ha deposto la piccolina sulla spiaggia ed è scappata via? E perché Sylvie W, quarantuno anni, ha avvelenato con l’insulina la figlioletta di sette anni e tentato pure di ammazzare un’altra figlia? Cosa c’era nella sua vita che non andava? Questo, una glaciale Corte d’assise non riuscirà mai a capirlo fino in fondo. Emetterà una sentenza, certo, probabilmente anche giusta. Ma qualcosa sfuggirà sempre. E non sono solo i fatti di cronaca nera ad inquietare.

Un giorno a Venezia Yasmina Reza scorge a un tavolo di un caffè il grande attore Bruno Ganz. Che muore un mese dopo. Due anni più tardi Reza ripassa nello stesso posto e rivede Bruno Ganz! «Lo stesso uomo, un po’ invecchiato, seduto allo stesso tavolo nella stessa solitudine, in ossequio, come intuisco subito, a un rituale immutabile». Ovvio che non fosse lui, eppure “era” lui. Reza osserva, si china su questa strana avventura che chiamiamo vita, una cosa insondabile, incomprensibile. Gli occhi di Yasmina Reza li immaginiamo pensierosi, se non costernati, davanti a questa “vita normale”.