Il rapporto di metà anno di Antigone fotografa un sistema penitenziario affollato, segnato da un lockdown più lungo di quello che ha riguardato la società libera e che ancora presenta vari strascichi: i colloqui riprendono a fatica e con barriere di plexiglass in mezzo, e le attività in genere non decollano.

Ai problemi portati dalla pandemia si sommano quelli più antichi, strutturali: come l’affollamento, che nonostante le 7.500 presenze in meno rispetto al periodo prepandemico (cioè febbraio 2019) resta a livelli inaccettabili. Al 30 giugno 2021 erano detenute 53.637 persone, in un sistema che ne può ospitare al massimo 47.445. Il tasso di affollamento reale (cioè quello che tiene conto solo dei posti reali, e non delle sezioni inagibili) è del 113,1%. L’affollamento non è distribuito in maniera omogenea: i cinque istituti più affollati sono quelli di Brescia (con 378 detenuti e un tasso del 200%), Grosseto (27 detenuti, 180%), Brindisi (194 detenuti, 170,2%), Crotone (148 detenuti, 168,2%) e Bergamo (529 detenuti 168%).

Questi numeri dicono della necessità e dell’urgenza di decongestionare le carceri. Cosa che andrebbe fatta partendo dalla modifica della legge sulle droghe, responsabile di circa un terzo delle detenzioni. I dati mostrano anche quanto sia alto il numero di detenuti tossicodipendenti, in forte crescita negli ultimi 15 anni: nel 2005 le persone entrate in carcere affette da tossicodipenza erano il 28,4%, nel 2020 erano diventate il 38,6%.

Sono diminuiti invece gli stranieri, un calo che va avanti da fine 2018 (quando erano quasi il 34%, a fronte del 32,4% di oggi). Un dato che diventa ancora più rilevante se si considera che l’ultimo decennio era iniziato con valori che sfioravano il 36%.

Sono ancora troppi i detenuti in attesa di giudizio: il 15,5% della popolazione detenuta è recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5% è condannato ma non ancora in via definitiva e il 69,4% sconta condanna definitiva.

Per ridurre i numeri delle persone detenute bisognerebbe tra le altre cose puntare di più sulle misure alternative. Sono 19.271, il 36% del totale, coloro a cui restano da scontare meno di tre anni. Se si eccettuano quelli che hanno commesso reati ostativi (che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari), sono tutte persone che possono accedere alle misure alternative. Il che consentirebbe un netto risparmio economico, se si considera che il carcere infatti costa allo Stato 3 miliardi di euro all’anno (il 35% di quello spende per la giustizia), mentre le misure alternative costano meno di 280 milioni. Il 68% di ciò che lo Stato spende per il carcere va alla polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente in carcere.

Negli ultimi 12 mesi, fra mille difficoltà, l’Osservatorio di Antigone ha vi-sitato 67 istituti distribuiti in 14 regioni diverse: nel 35,1% di questi non c’era un direttore incaricato solo in quell’istituto, e c’era un agente ogni 1,6 detenuti ma solo 1 educatore ogni 91,8 persone detenute. Se si vuole un carcere riformato, non mosso unicamente da logiche custodiali, è necessario da un lato assumere più educatori, più direttori, più mediatori e più medici, e dall’altro dare loro più peso di quanto ne abbiano oggi.

Sono molti i problemi strutturali legati alla materialità detentiva. Nel 42% degli istituti visitati da Antigone c’erano celle con schermature alle finestre che impedivano il pieno passaggio di aria e luce naturale. Nel 36% c’erano celle senza doccia. Nel 25% c’erano celle in cui lo spazio minimo calpestabile per ogni detenuto era meno di 3 metri quadri, il limite fissato dalla Corte di Strasburgo sotto il quale esiste una forte presunzione della violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Nel 31% non c’era acqua calda in cella.

Si tratta di problemi vecchi, su cui però la pandemia ha proiettato una nuova luce. Tuttavia il Covid, ci sembra, offre al sistema penitenziario anche qualche opportunità. Nel 76% degli istituti da noi visitati, oltre tre quarti dei detenuti effettuavano regolarmente videochiamate. Era una cosa impensabile, nel mondo di prima, che speriamo esca dall’informalità della prassi per essere formalizzata dalla legge. Anche alla luce dei fatti di Santa Maria Capua Vetere, serve infatti una riforma legislativa che porti in tempi rapidi da un lato a togliere centralità al carcere e, dall’altro, a fornire un nuovo modello di detenzione. L’elaborazione è già stata fatta negli anni passati. Adesso serve l’azione politica.