«Bettini seppellisce la vocazione maggioritaria, resuscitando i Ds e la Margherita». «Bettini ragiona come D’Alema e Buttiglione nel 1994». «Bettini dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio». Assassino di progetti politici, pensatore antiquato, nefasta maschera deandreiana: Goffredo Bettini, kingmaker del post-comunismo romano e maestro di Nicola Zingaretti, è il cattivo di giornata.

Sotto accusa il suo “Tridente Thailandese” (dal nome del Paese nel quale il dirigente democratico trova spesso ispirazione e riposo), sintetizzabile così: “La maggioranza di governo deve organizzarsi politicamente e poggiarsi su tre gambe, quella della sinistra, rappresentata dal Pd (e da Leu, ndr), quella (populista, ndr) incarnata dal Movimento 5 stelle, e quella moderata”. Il ragionamento, messo per iscritto in una lunga lettera al Foglio, prevede anche un ruolo per Matteo Renzi: «Smettila di fare il picconatore dell’esecutivo. Guida tu i moderati, fai il federatore di un polo liberale e riformista che può valere il 10 per cento e che possa costituire la terza gamba dell’alleanza di governo».

Bettini come l’Arrigo Sacchi del nuovo centro-sinistra: Pd, M5s e Italia Viva (allargata ad altri liberal-europeisti) devono marcare a zona. Ciascuno di questi partiti, secondo l’ex europarlamentare, è chiamato a occuparsi del proprio campo, coltivando i propri temi, accarezzando i rispettivi elettori e raccogliendo i diversi consensi. Poi, con un probabile proporzionale, sempre per Bettini, le tre forze dovranno ritrovarsi in Parlamento, mettendo a sistema i seggi ottenuti. Il ragionamento dovrebbe avvenire ancora alle elezioni regionali e amministrative. Trattasi dello scheletro di una coalizione. Dentro il nascente bipolarismo italiano: da una parte il centro-destra a trazione sovranista, dall’altra un centro-sinistra difeso da tre distinti eserciti, quello responsabile, quello populista e quello liberale. Bettini così anticipa il ritorno al proporzionale e archivia la stagione veltroniana -nella quale lui stesso era protagonista- con annessa ragione fondativa del Pd: basta vocazione maggioritaria e casa comune dei riformisti, si torna alle alleanze tra i partiti. In questo ragionamento al sapor di remake il Partito Democratico riveste i panni dei Ds, arroccandosi a sinistra e diventando il perno di un nuovo ed eccentrico Ulivo, con Alessandro Di Battista e Matteo Renzi come rivisitazioni postmoderne delle parti che furono di Fausto Bertinotti e Francesco Rutelli. Ed è facile immaginare che per Bettini il nuovo Romano Prodi sia Giuseppe Conte. Contro questa ipotesi di svolta si sono alzate le voci di quasi tutti i big democratici. A cominciare da Zingaretti, che per una volta si smarca dal suo maestro: «Non sono d’accordo con lui».

Giorgio Gori ci va più duro: «Bettini vuole seppellire la vocazione maggioritaria e resuscitare i Ds. Quindi in questi 13 anni abbiamo scherzato?». Non è da meno Matteo Orfini: «Questa proposta nega il progetto del Pd». Si nota, per potenza di fuoco, la nota congiunta di Alessandro Alfieri, Gianni Cuperlo, Maurizio Martina e Luigi Zanda: «Il Pd resti casa plurale. Italia Viva decida il suo destino». Un’autorevole fonte di Base Riformista, la corrente degli ex renziani rimasti nel Pd, dice al Riformista: «Bettini ragiona come D’Alema e Buttiglione nel 1994, con la politica divisa in compartimenti stagni e gli elettorati immobili e facilmente spostabili con le varie sigle partitiche. Invece le sommatorie in politica non esistono. Lo conferma il flop di Italia Viva e l’inesistenza di un polo liberale. Il Pd non rinneghi la vocazione maggioritaria e punti a rappresentare quel mondo, senza appaltarlo ad altri come Renzi». Eccoli, i renziani. Da loro reazioni contrastanti all’ipotesi di “Tridente Thailandese”. Il capogruppo al Senato Davide Faraone “accetta” la sfida e rivendica il progetto di Italia Viva di fare da casa del mondo riformista. Roberto Giachetti accusa Bettini, chiamando in causa Fabrizio De Andrè, di “voler dare buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio” praticando solo “tattica” e “politichese”, dopo “aver portato il Pd al guinzaglio dei grillini”. Luciano Nobili invece attacca il politico romano perché “ha come obiettivo la palude del proporzionale”.

Al netto delle previsioni e investiture di Bettini qualcosa nel mondo liberale sta però succedendo. Un polo riformista non è da escludere. L’intervento “politico” di Mario Draghi al meeting di Comunione e Liberazione è stato apprezzatissimo dall’opinione pubblica e gli addetti ai lavori. Molti sognano già una sua discesa in campo, e i suoi principali sponsor sarebbero quei liberali che, divisi adesso in più sigle, potrebbero presto federarsi sotto il nome dell’ex presidente della Bce. Un altro elemento di aggregazione liberale-riformista è il No al referendum di settembre sul taglio dei parlamentari. Già Emma Bonino, Carlo Calenda e Giorgio Gori hanno dichiarato la loro contrarietà a una riforma accusata da più parti di essere solo un’azione propagandistica del Movimento 5 stelle, a scapito della rappresentatività parlamentare. In questo fronte del No si è recentemente iscritto il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, con un editoriale critico con quella che non è “una riforma strutturale del Parlamento”. Questa ultima dichiarazione ha suscitato l’ira del Fatto Quotidiano, schierato ovviamente a favore del Si, promotore di articoli molto pesanti verso i giornalisti e i politici contrari alla riduzione lineare dei parlamentari. Coerenza giustizialista o paura per la possibile nascita di un polo riformista?