“Io da sedici mesi, diciassette mesi isolato da tutti e da tutto. Ogni tanto mi si attacca una televisione e poi mi si stacca sette mesi, otto mesi perché mi debbo pentire. Io non ho niente da pentire, è inutile che mi trattano così”.
Era Totò Riina, in uno sfogo a conclusione di un’analisi solo parzialmente condivisibile quando osservava che i responsabili della giustizia di cui si lamentava “sono i comunista” (in realtà “i comunista” cui lui si riferiva volevano mettere in galera quelli che lo avevano arrestato). Ma analisi a parte – che non era affatto male anche se addebitava “ai comunista” meno responsabilità rispetto a quelle che essi effettivamente portavano – importante era quella sua lamentazione: un anno e mezzo di isolamento, poi un po’ di Tv ma solo se si pente, e altrimenti gliela tolgono.
Di questi tormenti pare che non si possa parlare perché a soffrirne è chi ne ha inflitti a sua volta, e ben più gravi, alle vittime dei suoi delitti: dunque non deve muovere a pietà, figurarsi a indignazione, se il mafioso è torturato. Pensa a quanti ne ha ammazzati, e come. E nemmeno si pente. E si noti che l’inibitoria a farne anche solo materia di discussione non viene soltanto dalle vittime, cui più ampiamente bisogna concedere, ma dalla reazione comune e diffusa e ancora dai sacerdoti della demagogia antimafia, quelli che rivendicano la piena bontà dei rigori carcerari perché prima del 41-bis “i criminali stavano come al grand hotel”.
Nemmeno l’obiezione secondo cui quel regime di barbarie si imporrebbe per l’esigenza di impedire al criminale di organizzare dalla prigione altri delitti, nemmeno questa ricorrente e facile risposta si aggrappa a una giustificazione accettabile: perché anche la mordacchia gli impedirebbe di parlare e anche la corda gli impedirebbe di spiegarsi con i gesti, ma l’efficacia non renderebbe ammissibili questi rimedi.
È “un super-criminale”, fu detto di Riina, e fu detto per giustificare il trattamento che subiva e per pretendere che morisse in carcere (il senatore Matteo Renzi, royal baby del garantismo egoriferito, rivendicò con orgoglio di aver fatto morire in prigione sia Provenzano sia Totò Riina, perché “era doveroso per rispetto delle vittime e delle sentenze”). Ed evidentemente per parlare della barbarie carceraria è necessario che essa si incattivisca sugli innocenti. L’occasione, in teoria (anche in pratica), non mancherebbe visto che le gabbie ne sono piene, ma è come militare contro la pena di morte perché c’è caso che porti all’assassinio di chi non ha fatto nulla. Il guaio è che non si fa nemmeno questo: e il carcere duro, incensurabile perché serve contro i cattivi, diventa incensurato anche quando punisce i buoni.
Totò Riina non c’è più, e non si chiede a nessuno di dispiacersene. C’è ancora la giustizia che competeva con la sua ferocia, e questo dovrebbe dispiacere a tutti.