In queste settimane, il più che tardivo, improvvisato, sordo e spesso disonesto dibattito di governo e pubblico sulle rispettive doti della formazione a distanza oppure della formazione in aula, ci sta dimostrando quanto la tragica occasione pandemica non venga colta dai “decisori” in corso per rompere con il passato ma per rigettarlo dentro il presente e addirittura il futuro. L’imperativo è decidere il medium della formazione senza cambiare radicalmente i suoi contenuti, come invece sarebbe necessario per arrivare al medium più opportuno.

Si è parlato di tutto questo anche su Facebook, per diretta sollecitazione di Derrick de Kerckhove, ricercatore e teorico in campo mediatico – da Toronto a Napoli – tra i più attenti alle conseguenze sociali della digitalizzazione del mondo umano. S’è discusso tra “amici” di vario orientamento critico sulle diverse opzioni culturali tra chi conserva e chi invece ricusa il primato storico, scientifico e ideologico, detenuto dai linguaggi del “libro”. Del libro, non solo in quanto scrittura alfabetica stampata su carta (o in digitale, come fosse pietra), ma del libro come mentalità, bolla culturale, simbolica e funzionale, del sistema di valori ancora potentemente alimentato, sostenuto e tramandato dagli apparati e dalle istituzioni, dalle politiche e professioni, della società moderna.

Per alcuni tra noi, compreso me stesso, si tratta di un sistema di valori, pregiudiziale e superstizioso, che sta sopravvivendo alla stessa progressiva obsolescenza e morte dell’editoria cartacea. Dunque della scrittura-lettura dei libri come fulcro dell’intelligenza umana. Per altri di noi, o meglio della nostra stessa “cellula”, il primato del libro varrebbe invece tuttora proprio come garanzia di un pensiero critico, solidamente fondato e progressivo, non abbandonato al marasma sociale, per quanto fascinatorio, delle reti. E, negli stessi termini, varrebbe come baluardo contro la strapotenza raggiunta dalla tecnica sulla persona umana e sui suoi più irrinunciabili valori. La domanda cruciale è dunque se i libri siano e debbano essere ancora considerati la primaria fonte di conoscenza in grado di bilanciare gli effetti sociali (etici e estetici, politici e civili) della avvenuta nascita del “nostro gemello digitale”, come definito appunto dall’amico Derrick. Partecipando a questa discussione, Salvatore Iaconesi, tra i più vivaci attori e protagonisti di vita digitale, ha scritto: «Per avere a che fare con questa globalità, iper-connessione, intensità, quantità, attività, sensazione, il nostro corpo (composto di carne) non ci basta più. La nostra carne, come medium del sentire, non è più sufficiente».

È a questa sua coraggiosa affermazione che vorrei rispondere. Con qualche mio eccesso da dilettante. Nel parlare di IA, dunque d’ogni sua applicazione digitale, robotica e via andando … molti influencer (categoria di operatori sociali che, desunta dal marketing, si può ormai estendere a giornalisti, intellettuali, professionisti e politici) tendono o meglio sono portati a immaginarsi che il mondo esista soltanto perché umano, apparato economico-politico umano. E dunque sia orientato a muoversi in superficie – sulla propria superficie, compresa la pelle umana – così, ancora e inevitabilmente, mirando verso se stesso e i suoi più estremi confini, comunque “terrestri”, nel senso di geopoliticamente umani. È Atlante, fratello di Prometeo, a reggere il mondo sulle sue spalle di Gigante.

Il viaggio (al contrario delle stasi dei corpi migranti) è ancora ora quello delle “tre caravelle” verso nuove terre e altri corpi da sfruttare. I conflitti di potere sono ancora tra amici e nemici che, in urto tra loro, abitano e si contendono uno stesso territorio, le stesse risorse, il medesimo futuro, senza ascoltare altro che se stessi. Amici e nemici in e di una esistenza che non appartiene loro e tuttavia attraversano da proprietari e conquistatori. È proprio il metodo di ricerca esperienziale di Iaconesi a mostrarci, invece, di quanto ci si possa allontanare dai paradigmi più duri, resistenti e insensibili – corazzati – della modernità. Al posto del suo occidentale “principio speranza” ha messo la malattia: la sofferenza fisica diventa un valore da non rimuovere da sé (prassi quotidiana, invece, dei conflitti sociali). E la cura – non del sano versus il malato ma di questi verso il sano – è messa al posto della conoscenza.

La coscienza del male, al posto del libero arbitrio del bene. La carne al posto del corpo e il corpo della persona al posto del soggetto sociale. Del suo interesse dispotico. Abbastanza per farne un laboratorio di pratiche umanamente situate in grado di funzionare almeno da correzione se non da vaccino all’idea che la civilizzazione umana debba continuare a navigare lungo le medesime rotte occidentali, costringendo il nostro corpo a seguirle e perseguirle. A espandersi con esse e in loro nome. Le ultime tappe delle neuroscienze e gli orizzonti a venire della fisica quantistica si sono fatte ora tanto strabilianti da prestarsi a potere frantumare la formula classica dell’essere umano, in quanto soggetto identitario destinato a conoscere e conquistare la terra e il cielo. A farsene carico come Atlante. E potere così sfigurare la missione prometeica simbolicamente impressa, stampata, sulla figura di Galileo. E così mutare definitivamente la direzione del suo cannocchiale. Bisogna allargare lo sguardo con la vista del microscopio.

Per mezzo di macchine, il soggetto moderno – l’angelus novus che le ha concepite, sviluppate e fatte progredire nello spazio e nel tempo – sta rivelando la natura, essa stessa macchinica, di qualsiasi organismo esistente al mondo in ogni sua minima, media e massima dimensione. Dimensioni che diciamo propriamente materiali, quando se ne può riscontrare la effettiva loro consistenza fisica, ma che invece – nell’impossibilità di tale riscontro, di tale reale percezione esterna – diciamo impropriamente immateriali: sensazioni, finzioni di funzioni, relazioni affettive, appetiti o repulsioni, memorie. Tuttavia, ogni immaginazione umana – già prima di ogni sua concreta realizzazione, oggetto d’arte e artificio – funziona e può funzionare solamente grazie a motori in grado di produrla per essere consumata e consumarla per essere prodotta. Trans-metterla. Ovvero il mondo come perenne rifinitura (finish). E dunque, prima di ogni altra interfaccia necessaria alla nostra carne per intrattenersi materialmente con il mondo in cui è trattenuta (dallo stagno di Narciso a Internet), c’è da considerare quella interfaccia – propriamente la più personale, singola e intima – che ha preso il nome di interiorità.

Pure quella che ci è stata detta anima: la presenza in noi più “spirituale” e per questo ritenuta più aliena da ogni scambio e accumulazione di interessi materiali, terreni. Le macchine – qualsiasi dispositivo tecnologico: dalla mano all’osso di Kubrick al martello alla spada al pallottoliere e alla penna d’oca sino all’IA – sono state e sono estensione della nostra carne. Coraggiosamente – quasi a volere trovare l’anima da soffiare dentro al “gemello digitale” in cui ci siamo tradotti – Iaconesi ci dice che una umanità da sempre siffatta in virtù della propria stessa carne non ci basta più “come mediun del sentire”. Ha quindi un reale bisogno delle nuove macchine numeriche?

Pensiamoci insieme. Se già il “mondo nuovo” della voce umana venne alla luce grazie alla liberazione della bocca dalla sua precedente funzione prensile, ciò vuole allora significare che, procedendo su questa stessa linea, l’intera nostra carne è infine giunta al punto – estremo – di esonerarsi da se stessa? Così ragionando (è il mio modo e penso anche quello di Iaconesi), si arriva sempre e comunque a dovere riconoscere lo stato di necessità e il desiderio di sopravvivenza della natura che abitiamo (le leggi non scritte della Natura) e da cui siamo abitati minuto per minuto. Proprio agendo le qualità naturali che lo costituiscono, l’essere umano si è in esse “distinto” a tal punto, per mezzo della sua politica di civilizzazione, da arrivare a separarsi o meglio credere di essersi separato dai linguaggi non umani, inumani, della stessa natura che lo ha partorito e fatto crescere. Tanto da arrivare a credere di avere avuto la effettiva potenza di realizzazione necessaria a tale definitivo distacco.

Ma veniamo al punto su cui ci interroga Iaconesi. Dato l’avvento già manifesto e riconosciuto della iper-potenza tecnologica, cosa ancora resterebbe da esonerare nella carne umana dopo avere raggiunto il suo corpo e il suo cervello? Interessante domandarselo: certamente perché ci impone come cruciale, ultimativa, la riflessione su quanto in effetti sia rimasto all’umano di veramente umano. Stando al progresso storico e sociale – “residuato bellico” di una qualsiasi delle applicazioni tecnologiche con cui la nostra carne si sarebbe liberata – resta allora utile chiedersi quanto l’Umanesimo arrivi di conseguenza a scoprirsi di fatto non più come virtù del libero arbitrio e, conseguentemente, della sovranità dell’essere umano sulle cose del mondo, ma semplicemente, brutalmente, virtù della potenza della tecnica. Eccetera, eccetera … vecchia questione. Ancora cumuli di libri!

Mi interessa di più guardare la questione da un altro punto di vista. Credo che la nostra carne sia senza fondo e non ci sia mai bastata per vivere. Da qui, dunque, la catena di esoneri di cui si fa l’elenco, seppure senza avvertire, confessare, quanto essi sono di volta in volta avvenuti e avvengano in condizioni temporali e spaziali distanti tra loro: dunque non in uno stesso momento e non in uno stesso luogo. E quindi penso che la giusta sensazione di insufficienza di cui ci parla Iaconesi, volendo orientarci verso di essa, riguardi piuttosto soltanto l’esiguo, ristretto, “noi” di una intelligenza antropologico-culturale di esclusiva proprietà dei ceti sociali pienamente alfabetizzati, socialmente istruiti e, a ragione di questo, egemoni. Appunto il “noi”: non tutti gli esseri umani, ma la loro selezione, scrematura, domina su tutti gli altri. E con diversi mezzi domina sulla diversità delle loro esperienze vissute.

Carne, privilegiata da sé medesima a proprio vantaggio e da se stessa tecnologicamente aumentata a fini strategici, si trova ancora a vivere oggettivamente e soggettivamente separata da una massa infinitamente più espansa di vita organica e inorganica. Per questo, ripeto sempre, si può pronunciare e scrivere la prima persona plurale soltanto tra virgolette così che ne condizionino e limitino il senso e la credibilità. E di conseguenza, per comprenderne il reale significato, sarebbe necessario virgolettare anche il tutti. Ci si dovrebbe finalmente convincere di quale inganno si nasconda nel gioco di società tra élite e mondo. La crema di pensiero e azioni del “noi” si mantiene scissa dal vero mondo di cui essa è ospite indiscreto. Per lei, società della conoscenza, la sfera del tutti&tutto in senso pieno, è di fatto quasi muta per il proprio orecchio. Alla sua coscienza critica risulta una estensione sommersa, narcotizzata, dai troppi rumori di fondo e dalle interferenze che vengono dalle infinite sensazioni rarefatte, cieche e mute, da cui il “noi” si protegge. La sua “eccellenza” – oggi non a caso una delle parole d’ordine di tutte le università del mondo e dei loro codici di comportamento etico e professionale – agisce dal di fuori, da estranea, assente, in sostanza disabile, rispetto al mondo. E questo è dunque nettamente, crudamente, ancora distante dal “noi” che ne ha usurpato ogni possibilità di rappresentazione. Dalla sua quasi perfetta sintesi tra conoscenza e possesso.

Ad opera di questi soprusi, il “noi” raggiunge il proprio scopo: si dota di reciproca comprensione tra i suoi membri. È la comprensione realizzata dai canoni dell’istruzione e della formazione, che fanno del proprio linguaggio un vincolo etico e estetico. Familiare e civico. La coppia antagonista amico-nemico – coppia alla quale il pensiero politico moderno ha affidato i destini del mondo – resta così tutta dentro i limiti, ancora oggi sostanzialmente invalicabili, giorno per giorno imposti delle recite sapienziali così ben “forgiate” dall’Umanesimo. Dalla sua lunga sequenza aristocratica di forme di sovranità, prima celesti e poi terrene, che sono arrivane sino a ieri e ad oggi. Sino al bagno di sangue della democrazia, alla sua condizione utopica/distopica tra sovranità della politica e sovranità del “popolo”. . Delle pene e dei diritti. Tale tradizione lega me e te – i nostri “noi” amici e nemici – al possesso della medesima dote: quella del Libro, la parte che lega il tutto.

Torniamo quindi all’inizio: la cosa da fare è andare contro il sistema di valori e pratiche incarnate in quella forma di vita sociale che ha avuto nel libro il suo dispositivo ideale – e a ragione di questo ritenere che solo le piattaforme di comunicazione digitali possano funzionare da antidoto, territori di contrasto, alle malie della modernità ultima. Grande letteratura, grandi narrazioni e grandi teorie, ma senza più altre vie d’uscita dalle loro fascinazioni. Questa linea di condotta va in direzione contraria a chi lancia anatemi all’indirizzo di barbarie umane che sarebbero frutto degli errori e colpe di una civiltà senza più educazione (trascinamento) verso le forme di conoscenza tramandate dai libri e dai modelli antropologico-culturali dei loro scrittori.

Lo sforzo da compiere è però tutto da indirizzare verso la effettiva comprensione della specificità di questa sorta di svista – per più aspetti anche reciproca – tra i due divergenti mondi tecnologici che oggi abitano la terra (libro e algoritmo, se ancora mi consentite la sintesi terminologica di cui mi servo). Questa svista continua a accadere per tre ragioni. La prima consiste nel fatto che, spero si sia capito, il nodo di cui stiamo parlando in questo articolo non riguarda le funzioni che il libro e anche ogni altra sua traduzione digitale possano avere avuto ed essere destinate ad avere nel campo della ricerca tecno-scientifica e persino umanistica. La seconda ragione sta nel fatto che alla frequentazione dei territori analogici e a quella dei territori digitali non corrispondono esattamente le stesse vocazioni professionali. C’è chi frequenta la rete conservando la propria identità cartacea e chi frequenta la carta conservando la propria identità digitale.

La terza ragione è a mio avviso più sostanziale. La sfera umana, quella sua assai estesa parte che la sfera sapienziale considera ignorante, viene presunta tale in quanto reputata arretrata rispetto alla sua presunzione alfabetica di credere d’essere una già compiuta espressione del mondo, costituirlo pienamente e costituirne il destino. Al contrario ci si può forzare a pensare che siano proprio le qualità analfabetiche imputate alle masse incolte, in-civili, ad essere immensamente più avanti nel senso di ancora, seppure virtualmente, aperte al futuro. Lo spazio umano, il suo abitare in natura, viveva già molto prima che il tempo della civilizzazione, il suo progredire, iniziasse a correre sempre più velocemente e, per così dire, a lasciarselo alle spalle. E dunque questo spazio in tutto umano – pur trascinato come tale da e in un futuro per sé monco e unilaterale – ha continuato a vivere sino ad oggi.

Al mondo della carne – la vita organica più vicina alla vita della natura – il soggetto sapienziale ha imposto il suo tempo e i propri luoghi. Grazie alle tecnologie alfabetiche ha esercitato il proprio dominio, le sue teorie e pratiche di assoggettamento, collocandosi più avanti proprio in forza dei limiti – delle limitazioni – imposti dalla vita sapienziale a quella umana. Ora, alla vita umana, alle sue possibilità di espressione, i linguaggi non più analogici ma digitali offrono, data la natura virtuale delle loro piattaforme, la possibilità di collocarsi più avanti rispetto ai vincoli sapienziali sino qui sopportati come verità.

Conclusione. L’unico modo per contravvenire allo schematismo e persino manicheismo di questa mia lettura – e così liberarsene in virtù di una semplice, banale, considerazione – sta nel riconoscere quanto, al di là della loro reciproca repulsione, la carne dei sapienti sia anche la carne degli ignoranti, seppure così violentemente divise dalla società. Quanto, dunque, la singola persona costituisca nel suo intimo la più profonda piattaforma espressiva di cui dispongono le sfere del sapere e quelle dell’ignoranza (così come sin qui ho cercato di declinarle): la vita che oggettivamente più le lega e le divide.

Ripartire da questo ci porta a dovere riconoscere nella singola persona, dentro la sua coscienza infelice, il suo io diviso, il teatro di conflitti che la dividono tra due sue diverse, opposte, presenze, necessità: armate l’una contro l’altra. In attesa di una decisione. La posta di questo conflitto è il dolore della carne in sé e per sé. La sofferenza inferta e subita dovendo vivere socialmente.