Alla fine uno scudo penale si dovrebbe fare. Nei lavori al Senato prende consistenza l’ipotesi di assegnare a presidi e docenti una protezione dai processi penali destinati ad aprirsi in caso di esplosione dei contagi nelle aule. Il ragionamento è semplice. Il rispetto dei protocolli di sicurezza sanitaria dovrebbe, di per sé, mandare esenti da ogni punizione i responsabili delle scuole. Qualcuno potrebbe pensare che questo sia scontato e che a nessuno possa venire in mente di processare un dirigente scolastico che, malgrado l’osservanza dei protocolli, veda qualche focolaio pandemico coinvolgere il personale o gli studenti. Lo potrebbe pensare, in effetti, ma sbaglierebbe.

La battaglia che le organizzazioni sindacali dei presidi hanno iniziato da un paio di mesi – e che sembrano destinate a vincere proprio in queste ore – muove dalla precisa consapevolezza che, senza uno scudo ad hoc, le cose si potrebbero complicare e di molto in caso di focolai da Covid. Se mancherà una norma a salvaguardia dei presidi il pericolo che le procure della Repubblica possano – alla prima segnalazione o alla prima denuncia di un contagio – iniziare indagini e mandare a processo qualcuno è del tutto implicito nella posizione di garanzia e nei doveri di protezione che sono connessi a ruoli dirigenziali. Insomma esiste effettivamente il rischio che si scarichi sul capo d’istituto la responsabilità delle infezioni di studenti, personale e docenti, nonché dei loro prossimi congiunti se la fonte del contagio è la scuola.

Non è il caso di ripercorrere le tappe di una giurisprudenza che ha dilatato a dismisura la portata degli obblighi di tutela della salute dei dipendenti o dei doveri di precauzione verso gli utenti o degli oneri di prevenzione del rischio e che tutto ciò ha fatto – ben al di là del rispetto delle regole di sicurezza dettate dal legislatore o dalle autorità di garanzia – in nome di un controllo di adeguatezza su tali regole che il giudice ha riservato sempre e comunque a se stesso. In altri termini non è sufficiente l’osservanza delle precauzioni perché il giudice si riserva di valutare se, nel caso concreto, queste fossero adeguate a prevenire l’evento egualmente verificatosi. L’espansione del controllo penale nel settore dei reati colposi è, probabilmente, il vero, possente pilastro di quella democrazia sorvegliata e sorvegliante che si è imposta nel Paese attraverso il dilagare del controllo penale in ogni ganglio della vita sociale ed economica. Non ci sono precauzioni legislative o codificazioni che reggano. Il solo compiersi dell’evento (una malattia, una lesione o, peggio, una morte) in un’organizzazione complessa pretende che si scovi un responsabile. Il fatto che un danno si sia verificato in un contesto soggetto a regole precauzionali impone che si rintracci un responsabile. A ogni costo.

Nelle pieghe delle regole tecniche, nelle maglie fitte e intricate delle prescrizioni, nel reticolo degli obblighi si trova sempre una falla, un varco, un cedimento della qualità – ossia dell’adeguatezza – dell’azione di prevenzione che consente di creare un legame, di individuare un responsabile e, quasi sempre, costui coincide con il dirigente, con il capo della struttura o dell’organizzazione. Non importa quanto questo soggetto, finanche fisicamente, fosse distante dal luogo dell’evento da sanzionare, quanto fosse effettivamente in grado di governare e controllare il processo generatore dell’evento avverso, quanto complessa fosse la catena organizzativa che implementava e applicava i protocolli di sicurezza. La giurisprudenza risale i più ripidi crinali, aggira le più minute disposizioni organizzative interne (ritenendole spesso elusive della legge), stigmatizza la lontananza del responsabile dal luogo del fatto come fosse di per sé una colpa stare a capo di macchine complesse, elide i passaggi intermedi e punta dritto al cuore della governance perché chi comanda risponde comunque e a qualunque costo.

Nessuna giustificazione regge e nessuna scusante arresta la macchina sanzionatoria che ha praticamente costruito un sistema di responsabilità oggettiva, senza colpa, perché la colpa (nata e concepita come un connotato imprescindibile della responsabilità per gli eventi non voluti) è sostituita dalla mera inosservanza delle regole tecniche che governano l’attività produttiva o di servizio, a prescindere dall’effettiva condotta del titolare del potere organizzativo. L’omessa vigilanza e l’omessa sorveglianza riempiono ogni interstizio del processo e raggiungono la prova necessaria alla condanna. A nulla servono disposizioni interne, ripartizioni di compiti, controlli periodici, scelte imprenditoriali, l’omissione è la sola causa del fatto che contamina verso l’alto la catena di comando, sino all’apice. Coloro i quali, in questi mesi della peste virale, hanno paventato il rischio di una tecnocrazia golpista che si sostituisca al potere democratico della politica dovrebbero piuttosto volgere lo sguardo alla tirannia delle regole tecniche che – in nome di una generalizzata e indiscriminata pretesa di efficienza del totem repressivo – pretende si individui e si processi un responsabile “comunque”. E come in tutte le tirannie si esclude che i fatti possano essere casuali, che il destino o la fortuna possano dominare la sorte degli uomini, che tragedie possano compiersi solo perché è impossibile evitarle. Esiste un traditore da punire, un sacrilego da mandare al rogo.

I danni di un terremoto, di un crollo, di un deragliamento o di una frana sono tutti più o meno prevedibili o, comunque, diventano tutti evitabili scorrendo il catalogo dei doveri di un sindaco, di un capo tecnico o di un amministratore delegato e, comunque, l’omessa vigilanza e l’omesso controllo superano ogni dubbio e colmano ogni lacuna. Si badi bene: non si discute del necessario e imprescindibile rispetto delle regole di sicurezza che sono imposte per garantire l’incolumità dei lavoratori, dei cittadini o degli utenti di un servizio o del fatto che si debbano indennizzare le vittime incolpevoli, si vuole solo evidenziare che il semplice rispetto di quelle regole non “scuda” alcuno alla luce di un approccio giurisprudenziale che – oltre le regole – ha coniato doveri ulteriori, ha espanso la portata dei precetti tecnici, ha dilatato la prevedibilità dell’evento negativo. Spesso avvalendosi di un nugolo di periti che, a ritroso, riescono sempre o quasi a trovare una crepa, una piccola fessura su cui innescare una sequela causale e, quindi, un ciclo di responsabilità penale.

I dirigenti scolastici – che in questi guai impattano spesso per qualunque incidente si verifichi tra le mura delle scuole e che, fin dal 1980, godono di un ampio scudo civilistico – lo sanno bene e, questa volta, si sono confezionati e hanno suggerito uno scudo penale particolarmente efficace secondo cui l’osservanza dei protocolli di sicurezza sanitaria rappresenterebbe l’adempimento di un dovere che, codice alla mano, esclude di per sé ogni responsabilità penale. Dovrebbe funzionare a occhio e croce. Un precedente importante che altro non è che il tentativo di ricondurre alla politica, ossia al legislatore, il potere di sanzionare le condotte effettivamente colpevoli in casi come questi in cui la natura, la provvidenza o altro pretende, da millenni, di sconvolgere la vita degli uomini.