Il caso Segre
Ritorna il razzismo: la Storia non è maestra di vita
Il razzismo sta ritornando in Italia, se mai era scomparso, e nei prossimi decenni spazzerà lo stivale in lungo e in largo, con conseguenza per ora non prevedibili. I segnali quotidiani sono la punta dell’iceberg: basta ascoltare per strada, nei bar, tra i ragazzi davanti alle scuole o alle aule universitarie, sui treni, allo stadio e nei palazzetti dello sport, etc. E questo malgrado gli applausi di 151 senatori a un progetto nato morto, quello della senatrice a vita Liliana Segre.
Addolora la messinscena parlamentare che ha consentito ai razzisti veri, potenziali o inconsapevoli di mettere a segno un non secondario risultato propagandistico, esponendo la povera Liliana Segre alla berlina, insieme al politicamente corretto. Non lo meritava, la senatrice. Non merita neppure di ricevere sulla sua posta elettronica duecento insulti antisemiti al giorno. Il tutto più che prevedibile. Perché esporre la signora Segre al dolore di vedere dei nazistoidi irriderla? Riuscendo ad apparire addirittura anticonformisti… E poi, in che consiste e a che serve l’istituzione di una Commissione per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo? Cos’è? Esistono già leggi per perseguire questi i reati. Serviva proprio ravvivare i sentimenti razzisti diffusi nel Paese?
Il documento è un assist a vantaggio del razzismo montante. Ha consentito ai razzisti di aggregare qualche sedicente liberale. È noto che l’Italia, insieme ad alcuni Paesi slavi, ha i più alti tassi europei di razzismo e antisemitismo. È anche il Paese dove circa il 70% dei cittadini manca delle competenze per capire come funzionano le società della conoscenza e il 40% è analfabeta funzionale – nel senso che se costoro leggono un paragrafo che contiene affermazioni in contraddizione non se ne rendono conto. Siamo all’ultimo posto tra i Paesi Ocse. Il quoziente intellettivo, e in seconda battuta, il livello di istruzione sono le condizioni predittive della refrattarietà al razzismo; essere un po’ ignoranti aiuta, anche se non sempre basta, a crescere antisemiti e razzisti.
Non c’è più niente che si possa fare. Il razzismo è alle porte e vedremo che cosa riserverà. I principali alleati del razzismo sono il politicamente corretto, cioè l’egualitarismo ideologico, caratterizzato da quell’atteggiamento di superiorità morale e braccia aperte ai migranti, a prescindere, che scatena sentimenti di odio per i diversi e anti-intellettualisti; e la Storia come patrimonio morale, cioè l’idea che si possano per esempio correggere le storture del razzismo e dell’antisemitismo facendo appello alla memoria. Con tutto il rispetto dovuto al Presidente della Repubblica Mattarella, egli sbaglia, tragicamente sbaglia, quando dice, circa una volta la settimana, che sarebbe un dovere morale “ricordare” le tragedie del passato. Non ci sono prove che ricordare tenga lontano l’odio; serve a credere ingannevolmente che la memoria sia un fatto oggettivo. La Storia non porta a nessuna responsabilità morale: non è mai accaduto e mai accadrà. Al contrario, può trascinare con sé le brutte emozioni che hanno causato nel passato le stesse o analoghe tragedie. La Storia, quando arriva al popolo che si vorrebbe educare, diventa un racconto funzionale a darsi ragione o autoassolversi. Se fosse vero che la Storia serve a migliorare l’etica pubblica, saremmo un popolo virtuoso e senza razzismo, stante la quantità che ci è stata e viene propinata. E invece… siamo un paese di ignoranti, razzisti e corrotti. Lo storico David Rieff, figlio di Susan Sontag, ha pubblicato nel 2016 un libro intitolato Elogio dell’oblio, dove afferma che «a maggior parte degli argomenti a sostegno della memoria collettiva come imperativo morale e sociale» sono discutibili. La celebrata ingiunzione di George Santayana, «coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», è falsa. Si pensa che ricordare voglia dire essere responsabili: verso verità, storia, il proprio paese, etc. ma «è un atto di irresponsabilità, che minaccia di minare sia la comunità che, nella nostra era terapeutica, noi stessi». Rieff passa in rassegna i più noti eccidi etnici per provarlo. Non dobbiamo negare il valore della memoria per insistere sul fatto che la documentazione storica non giustifica il passaporto morale che al ricordo viene solitamente concesso oggi. «La memoria storica collettiva – insiste Rieff – e le forme del ricordo che sono la sua espressione più comune, non sono né fattuali, né proporzionali, né stabili». Sono narrazioni ricostruite e interpretate, con il rischio che diventino strumenti per disseppellire sempre lo stesso odio.
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