Oggi l’onda sovranista ha alimentato vecchi stereotipi
Rom, la Shoah silenziosa di cui è proibito parlare
L’8 aprile 1971, nella città di Orpington, a pochi chilometri da Londra, si riuniva il primo Congresso internazionale dei Romanì, tappa decisiva di un percorso di quel Movimento per la tutela dei diritti del popolo Rom sorto dopo la tragedia della guerra. Il Congresso aveva avuto come sostenitori il Consiglio ecumenico delle Chiese – non dimentichiamo che la Chiesa cattolica nel 2000 chiese ufficialmente perdono per non avere denunciato le persecuzioni nei confronti dei Rom – e il governo indiano; l’India è il luogo d’origine di questo popolo. In quell’occasione i Rom si riconobbero come un popolo e ne fissarono i simboli: la lingua, la bandiera, l’inno. Quel congresso diede vita ad una struttura di rappresentanza permanente, la “Romani Union”, ufficialmente riconosciuta dall’ONU nel 1979. E proprio quella dell’8 aprile, a ricordo di quel primo congresso, nel 1990 è stata scelta come data di riferimento per la giornata mondiale del popolo Rom.
La storia del popolo Rom è stata una storia di violenze ed emarginazioni di cui gli anni che vanno dal 1939 al 1945, cioè gli anni della follia nazista, sono stati i più drammatici. I numeri oscillano fra i duecentocinquantamila e il milione di vittime; forse non sapremo mai la cifra esatta, resta il fatto che, dopo quello degli ebrei, il genocidio del popolo Rom resta la drammatica testimonianza di come il male possa raggiungere vertici mai toccati di disumanità. Quella tragedia fu infatti espressione di un odio razziale di antiche radici, diffuso non solo in Germania ma in un po’ tutta Europa, che trovava ora, proprio nel regime nazionalsocialista e in molti suoi alleati – non dimentichiamo la liquidazione dell’intera popolazione Rom nella Croazia degli Ustascia o le misure di internamento attuate dal governo di Vichy in Francia, per citarne un paio – il loro efferato carnefice. Una storia drammatica, fatta di sofferenze inenarrabili e di morte, ma che, ironia della sorte, purtroppo, non ha trovato quel rilievo e quell’attenzione che avrebbe dovuto avere.
Diversamente da quanto era accaduto per gli ebrei, assassinati a milioni nei campi di sterminio, di questo fatto sconvolgente si è, infatti, parlato e, ancor oggi, si parla poco, lo si è quasi considerato una appendice, in qualche modo abusiva, della Shoah. Non è un caso che solo nel 1979 la Germania, certamente troppo tardi, abbia operato ufficialmente il riconoscimento della colpa (schulden) per la persecuzione nazista motivata da pregiudizio razziale, con le conseguenze risarcitorie collegate a questa ammissione. Eppure, come l’antisemitismo, anche l’antizingarismo – il termine, lo troviamo nella risoluzione del Parlamento Europeo dell’aprile del 2015, è poco usato ma andrebbe adeguatamente valorizzato –, che è un’evidente forma di razzismo, ha segnato molti passaggi della storia culturale anche dell’Europa tanto da divenire sentimento diffuso nell’immaginario collettivo che, purtroppo, si declina nella quotidianità attraverso le tante discriminazioni e i pregiudizi di cui, in maniera palese ma, troppo spesso, in maniera subdola, sono quotidianamente vittime gli stessi Rom.
Atteggiamenti discriminatori le cui radici affondano, molto spesso, in stereotipi negativi, in visioni tanto leggendarie quanto risibili circa la stessa identità di questo popolo di migranti, come la storiella che un patto con il demonio li abbia dotati di abilità magiche o che questa gente, depravata per natura e ribelle ai canoni della civiltà, al lavoro anteporrebbe il furto e perfino che rubino i bambini per educarli all’accattonaggio. Tutte espressioni di ostilità preconcetta che verrebbero giustificate appellandosi al modo di vita dei Rom considerata una sorta di diversità insopportabile, una rottura rispetto alla tradizione occidentale. Alla luce di ciò non possono sorprendere, dunque, le conclusioni di uno studio psico-sociale, pubblicato nel 2011, che faceva riferimento all’immigrazione rumena di cui una parte è Rom, che questi ultimi in ogni caso ispirano nell’opinione pubblica un sentimento di minaccia, un senso di insicurezza e di paura.
A complicare le cose ha contribuito, in questi ultimi tempi, il nuovo clima politico. In parecchi Paesi europei è montata l’onda sovranista che ha alimentato e legittimato i vecchi stereotipi per finalità di basso profilo politico. Stati come l’Ungheria di Orban, ma non solo quello, hanno posto un freno agli sforzi avviati per abbattere le barriere culturali – gli zingari sono visti e si vedono come gruppi sociali separati – ai normali processi di integrazione. E tutto questo mentre le organizzazioni internazionali e, soprattutto, l’Unione Europea continuavano a insistere sugli Stati, come fa la risoluzione n.2509 del Parlamento Europeo del 12 febbraio 2019, per elaborare strategie «nazionali di integrazione dei Rom con un’ampia serie di settori prioritari, obiettivi chiari e vincolanti, calendari e indicatori per monitorare e affrontare le sfide specifiche e riflettere la diversità delle comunità Rom, e stanziare a tal fine sostanziali fondi pubblici». Se oggi, che celebriamo questo 50° anniversario della giornata del popolo Rom, non siamo all’anno zero, non si può non rilevare che il cammino da fare è ancora tanto e richiede ancora un “supplemento d’anima” e cioè molta pazienza e altrettanta volontà.
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