Il virus malvagio che tutti temono ha improvvisamente fatto un incantesimo: ha fermato la mano del boia a Singapore. Nagaenthran Dharmalingam, malesiano di 33 anni, doveva essere impiccato il 10 novembre, dopo oltre dieci anni trascorsi nel braccio della morte per un reato legato alla droga. Ma quando la corte, alla vigilia del giorno fatidico, si è riunita per decidere su un ricorso presentato in extremis dall’avvocato M. Ravi in merito alla sua disabilità intellettiva – Dharmalingam ha un QI di 69 – ha riscontrato che aveva contratto il Covid e ha rinviato l’esecuzione. La pandemia ha in generale imposto una “tregua nelle esecuzioni”. In parte per le lentezze processuali, in parte per alcuni sviluppi politici.

Nel 2020 e in questo 2021, Singapore, per la prima volta dal 2013, non ha effettuato impiccagioni. Non ha però smesso di pronunciare condanne a morte. E si è distinto per due casi in cui la condanna a morte è stata emessa, l’anno scorso, non in un’udienza fisica ma tramite Zoom. Quando il 9 novembre, il giudice Andrew Phang ha annunciato la sospensione dell’esecuzione di Dharmalingam, ha spiegato come la decisione sia stata frutto della “logica, del senso comune e di quello di umanità”. Logica, senso comune e senso di umanità che dovrebbero far riflettere questa piccola isola città-stato del sud-est asiatico, e noi stessi, sull’insano primato che riveste nel microcosmo della pratica della pena capitale. Quello di avere una legislazione anti-droga tra le più severe al mondo e di praticare la pena di morte quasi esclusivamente per questo tipo di reati in un regime avvolto ancora in gran parte dalla segretezza.

All’aeroporto, i formulari doganali avvertono senza mezzi termini i viaggiatori in arrivo sul rischio di “pena di morte per i trafficanti di droga”. Qualsiasi persona con più di 18 anni trovata in possesso di oltre 15 grammi di eroina, 30 grammi di cocaina, 500 grammi di cannabis o 250 grammi di metanfetamine è condannata all’impiccagione. Quando Nagaenthran Dharmalingam viene arrestato nel 2009 aveva sotto i suoi larghi pantaloni un pacchetto di 42,72 grammi di eroina legato alla coscia sinistra. Sembrava destinato a soccombere in un Paese in cui la pena di morte era addirittura obbligatoria. La sentenza capitale del 2010 è infatti confermata in appello nel 2011.

Nel 2013, però, Singapore si rende conto che è giunto il tempo di rivedere tale disumana legge e introduce un margine di discrezionalità nel comminare la pena di morte o l’ergastolo e 15 colpi di bastone, per chi sia solo un corriere o un collaboratore con la giustizia. In alternativa, chi dimostra di essere un corriere potrebbe anche evitare la pena di morte se mentalmente o intellettualmente disabile. Dharmalingam, nel 2015 chiede allora la revisione. Ma perde il ricorso in primo grado nel 2017 e in appello nel 2019.

Lo scorso mese di ottobre, il Servizio delle prigioni manda una lettera a sua mamma per informarla della data dell’esecuzione e darle modo di far visita al figlio. La lettera viene fatta girare sui social media. In questo Paese dove non c’è quasi dibattito pubblico sulla pena di morte, anche perché leggi speciali limitano la libertà di stampa, accade che parte una mobilitazione internazionale che raccoglie oltre 60.000 firme su un appello rivolto al Presidente di Singapore Halimah Yacob affinché conceda la grazia. Oltre alla disabilità mentale, viene avanzato anche il caso che Dharmalingam sia stato usato nell’ambito del traffico di esseri umani. Intervengono il Primo Ministro della Malesia Ismail Sabri Yaakob, un gruppo di esperti ONU, il miliardario inglese Richard Branson, oltre alla delegazione dell’Unione Europea e le rappresentanze della Svizzera e della Norvegia. Sta di fatto che ad oggi la speranza di Dharmalingam è, paradossalmente legata al Covid, in un mondo che lascia mietere ben più morti alle politiche proibizioniste che alla pandemia.